venerdì 20 aprile 2012

Quel che resta quando l'acqua dolce si ritira

I matti del nostro immaginario classico sono carosello e forca, perché in loro vive la contraddizione dello sguardo altrui; i matti posseggono l’inconciliabilità tra il dentro e il fuori. E hanno viaggiato lungo i fiumi, lasciati all’indifferenza della corrente e delle acque, solo dopo sono stati rinchiusi. La nave dei folli, quella di Sebastian Brant e di Hieronymus Bosch trascina con sé il vizio e la sfida, il residuo di una verità sopravvissuta sul bordo della nostra realtà mondana. Questa nave, come più di recente sostiene Michel Foucault (2011), vive e incarna una delle nostre “grandi narrazioni”, e il fiume, mito universale da quando l’uomo ha preso a respirare, trasporta e accoglie l’incomprensibile, seppure lo segrega e lo localizza nel breve volgere di un tragitto obbligato, benché lungo. Così nel fiume non c’è solo l’infinito mito eracliteo del tempo, c’è anche la parabola del confine, della zona di margine, del limite: quello spazio franco, tra una certezza e l’altra (o tra un dogma e l’altro), in cui pullula la distanza staminale dell’alterità, della metamorfosi, del mutamento di stato.
Tant’è che in altri casi della nostra fantasia, il fiume è il veicolo della dimenticanza, oppure porta con sé i morti verso l’ultimo loro passaggio, li trascina in un letto fatto di oblio; mette in comunicazione il mondo intoccabile del sempre con quello marcescibile che calpestiamo da quest’altra parte. Il Lete e l’Acheronte sono i fiumi del passaggio, i fiumi del margine definitivo, quello irreversibile che soltanto Orfeo e Dante hanno avuto la sfortuna di solcare respirando. E poi lo Stige di Flegias, che porta fino ai demoni, dissimulando e accogliendo il furore delle Erinni. E poi il Cocito, con l’onnivora presenza di Lucifero. Ecco che l’innumerevole fiume del mito, come abbiamo visto, a sua volta collega altri miti: gli Aldilà classici di Persefone con i terribili Inferni medievali.
Tutto ciò è avvenuto dalle nostre parti, nelle nostre invenzioni letterarie. Ma anche altrove, per esempio nell’antica tradizione del Celeste Impero, il fiume non è da meno. Conserva nel suo letto un’anima di perla rilucente, dà forma al meraviglioso, facendosi drago nel suo spirito. Oppure, come nella cosmogonia norrena, compare negli Élivágar che condensano la vita portandola fin dalla terra di Niflheimr, dove la vita ancora non esisteva prima che tutto cominciasse, per poi rioffrirla all’eterna putrefazione di Hel.
Sicché, e veniamo a noi, data l’universalità di questo mito di margine così fertile per la struttura del pensiero, ci capita spesso di ritrovarlo nascosto altrove, anche tra le righe di un racconto argentino della fine del Novecento, a spasso tra il fantastico, il meraviglioso e l’assurdo. Ne La piena di Carlos Dámaso Martínez, racconto che dà il titolo all’omonima raccolta pubblicata in Italia da Arcoiris, c’è un fiume che si pone come margine tra due mondi. Non due mondi fisici, fatti solo di materia e contesto, ma due mondi diversi di pensiero: ossia due modi di leggere (letterariamente) la realtà. Qui il fiume non porta solo morte, ma porta un’altra morte, una morte impossibile perché correlata a una vita impossibile: dopo una violenta piena, ritirandosi, le acque lasciano emergere un’enorme cavalla bianca – esageratamente più grande dei cavalli parlanti di Swift (2009), che pure già avevano solcato il suolo del fantastico –, spiaggiata senza più respiro nell’ansa di un fiume nella provincia di Córdoba, Argentina. Una cavalla tanto grande da suscitare inizialmente negli uomini, nonostante essa non abbia più vita, timore e sguardi interrogativi. E d’altronde sta proprio nel timore, nello spaesamento della paura, uno degli assi principali della strutturazione del fantastico (si vedano, in proposito, diverse posizioni: Todorov, 2000; Ceserani, 1996; Roas, 2011). Una paura, ci ricorda Tzvetan Todorov (2000), che spesso nel fantastico si dà il cambio con altre esperienze di margine, come quelle psicotrope o quelle psicotiche (e qui per un attimo si ritorni alle battute iniziali di questa riflessione).
Una cavalla enorme, dicevamo, e morta. Arenata sulle sponde di un corso d’acqua. Inoltre, cosa ancor più bizzarra, aliena alla ragione biologica della putrefazione. Una morte che resta, sempre attuale nell’ultimo atto della vita: una morte candida come il manto della bestia e come l’ingiustificabile assenza di bigattini. Non un animale impagliato, ma una bestia ferma, viva in un poco fa che nel racconto durerà per mesi.
Non c’è spiegazione a questo prodigio, e nessuno, dopo l’iniziale paura interrogativa, la cerca lungo gli argini del fiume; anche il protagonista del racconto, che pure più degli altri vuole sapere e indagare, s’abbandona poi all’evidenza del fatto. La cavalla è lì e non si decompone, la cavalla è lì, punto e basta: ci si ferma con la paura, con l’interrogazione. E così il prodigio diventa materia per turismo, immagine da cartolina, spettacolo della domenica, come tante altre nella nostra realtà, non è il caso di snocciolarle tutte. Fino a quando un altro prodigio, un’altra piena, non ne trascina via le carni oramai incomprensibilmente fattesi come di polvere, lasciando alle sponde solo uno scheletro gigantesco, che pure rientrerà nella realtà di tutti i giorni, materia preda di artigiani e costruttori. Materia che, nel suo rientrare totalmente nel reale, diventerà manufatto, opera dell’uomo, totalmente organica alla sua realtà.
Ecco uno dei motivi che possiamo trarre da questo racconto: il fantastico, tramite il fiume (che è l’universale mito del margine), rientra nella nostra realtà, in una zona per di più minima e provinciale della stessa, e contamina il mondo degli osservatori; ma, e questo è un grosso pregio che si deve al racconto La piena, dopo poche battute è la realtà che si riappropria del fantastico, facendola rientrare all’interno delle sue stesse trame, delle sue stesse teorie, del suo stesso modo di vedere le cose. Con il fantastico, la realtà crea manufatti, rovesciando in un certo modo i termini di un tema già classico, presente, per esempio, nell’invasione silenziosa dei hrönir provenienti da Tlön (Borges, 2003). Come il fiume nelle piene, come le sue acque puntuali o meno, la realtà ritorna, inghiottendo (e pure con una certa arroganza) l’elemento fantastico, rendendolo quotidiano, scontato. E proprio come il mito del fiume, il gioco tra reale e fantastico, una volta aperte le chiuse che separano i due mondi è di contaminazione reciproca, ininterrotta soltanto perché esistono le possibilità. Sicché domani, per quanto ci è dato sapere, in una qualsiasi curva di un qualsiasi fiume appena dopo una piena, un qualsiasi Houyhnhnm potrebbe incontrare, arenata sull’argine, la mummia di un gigante senza più vita.