lunedì 31 dicembre 2012

Resoconto

Fra poche ore finirà un anno duro e sofferto, le difficoltà incontrate negli ultimi mesi sono state superiori alle previsioni, e noi tutti con estrema fatica stiamo tenendo duro, o almeno ci stiamo provando. Ciò nonostante molti traguardi sono stati raggiunti, e noi dell'Arcoiris abbiamo avuto qualche soddisfazione che ci induce a non demordere e a continuare a lottare lungo l'arduo percorso che quotidianamente affronta una piccola casa editrice.
Il mio grazie principale va al prof. Loris Tassi (Università Orientale di Napoli), direttore editoriale di due collane ed amico, disposto a sacrifici per portare avanti i nostri bellissimi progetti senza mai perdere l'entusiasmo di chi crede fortemente in quello che fa nonostante le difficoltà siano sempre dietro l'angolo.
Grazie a tutti gli altri collaboratori ed autori di opere pubblicate da Edizioni Arcoiris (Roberto Colonna, Livio Santoro, Maria Rossi, Anna Boccuti, Raffaele Di Somma, Lorenza Di Lella, Piero Armenti e Antonio Pagliula - con loro è iniziato tutto - , Alessandro Badella e tutti coloro i quali non ho citato), grazie agli autori che vedranno le loro opere pubblicate nel 2013, grazie infinite a Norberto Luis Romero, Carlos Damaso Martinez ed Eduardo Ramos-Izquierdo, è stato un onore pubblicare le loro opere in italiano. Grazie ai traduttori per il lavoro svolto. Grazie a tutti coloro che ci inviano il proprio curriculum nella speranza di entrare a far parte della nostra squadra, grazie a chi ci invia il proprio manoscritto sperando che venga pubblicato. Grazie a chi promuove le nostre pubblicazioni o iniziative. Giuseppe Girimonti Greco in primis.
Grazie a tutti coloro che hanno acquistato o letto i nostri libri, grazie ai giornalisti che li hanno sempre recensiti positivamente.
Auguri a tutti


martedì 4 dicembre 2012

Le inquietudini dell'anima - Intervista a Norberto Luis Romero

"Dieci racconti, poco più di cento pagine: una lettura, un sentiero che porta alla scoperta di Norberto Luis Romero e della sua scrittura. Dieci storie che narrano con pennellate veloci l'inquietudine".
E' così che Dajana Morelli, traduttrice e curatrice di "Istantanee d'inquietudine" ci presenta l'essenza ed il filo conduttore degli spiazzanti racconti che compongono questa raccolta e che scavano in profondità, indagano gli uomini e i loro comportamenti, senza giudicare, lasciando il lettore smarrito, senza via d'uscita.

A Norberto va il mio grazie non solo per essere entrato nel gruppo Arcoiris con la sua bontà ed umiltà nonchè con le sue eccellenti qualità letterarie, ma anche e soprattutto per essersi messo a nudo in questa intervista che mi ha rilasciato e grazie alla quale possiamo comprendere meglio quali meccanismi umani rendono la sua anima così inquieta.


In quale momento della tua vita hai iniziato a dedicarti alla scrittura e quando hai capito che scrivere sarebbe diventata la tua professione?

Ho iniziato a scrivere molto presto, per dare voce ad una necessità imperante di dar sfogo ad alcune inquietudini interiori, alcune fantasie in gran parte generate, o meglio stimolate, dalla lettura di alcuni libri di genere fantastico, tutti di autori classici anglosassoni, presenti nella biblioteca dei miei genitori. Avevo circa quattordici anni quando iniziai a scrivere un racconto di tipo folklorico e fantastico, che poi non ho mai finito. E fu a partire da questo primo impulso frustrato che iniziai a scrivere una serie di racconti, in quell’epoca in cui ero influenzato fortemente da Ray Bradbury ed anche da “Le cosmicosmiche” di Calvino. In seguito ci furono Borges, Cortázar, Buzzati ecc., e molti altri, ed ognuno di questi meravigliosi autori aggiungeva nuovi ingredienti ai miei racconti, e nel frattempo si delineava la mia voce. Una volta terminata l’università e a causa del mio lavoro, misi da parte la scrittura, che ripresi quando arrivai in Spagna, ad intermittenza e considerandomi sempre come “uno in più che scrive”, ma non uno scrittore. Fu il mio amico, il grande scrittore riojano-cordobese Daniel Moyano, che conobbi a Madrid, colui che mi fece prendere coscienza della mia condizione di scrittore. Successivamente H. E. Francis, scrittore nordamericano, amico e traduttore di Moyano ad anche mio, confermò il mio essere uno scrittore. A loro due devo tanto, tantissimo.


Dopo tanti anni in Spagna, in cosa ti senti argentino e in cosa ti senti spagnolo?

Innanzitutto devo dire che in realtà non sono in grado di rispondere. A noi argentini viene attribuito, proprio – e sembra essere un luogo comune – una sorta di mancanza d’identità. Io credo che questa specie di mancanza d’identità sia proprio l’identità degli argentini e che in realtà non sia altro che una capacità di adattarsi a qualunque nuova identità senza però abbandonare quella precedente, ed al tempo stesso avere tante identità. Per confondere meglio: diciamo che la pluri-identità è una delle caratteristiche di un argentino, cosa che non dobbiamo confondere con il concetto di personalità multipla tanto di moda. Un argentino si sentirà argentino in Polonia e al Polo Nord, ma questo non gli impedirà di parlar male o rinnegare il suo paese ed inoltre di sentirsi straniero quando si trova lì. Anche il rapporto odio amore è un segno dell’identità in questo caso. Personalmente, con il passare degli anni, mi sento sempre più vicino all’Argentina che alla Spagna, un paese che da alcuni anni a questa parte è diventato indescrivibile, è per disgrazia, non diventa fantastico, anche se si trova ad un passo dal diventare irreale.


L’appartenenza a due mondi contemporaneamente (Argentina e Spagna) in che modo ha influenzato la tua visione della vita e della letteratura?

La dualità di sentimenti, in questo caso, si riversa fortemente nella sfera del linguaggio e della creazione, più che nella vita quotidiana. La mia vita sarebbe più o meno la stessa se vivessi in qualunque altro paese in cui si parla il castigliano, i conflitti con il linguaggio sarebbero gli stessi. Fra il castigliano di Spagna e quello d’Argentina esistono varie differenze lessicali e grammaticali, così come di significato. Il linguaggio che ho imparato fino ai miei 25 anni, nella mia patria, anche se alcuni anni fa, forse quando la Spagna mi abbagliava, avevo la convinzione e commisi l’errore di considerare che il castigliano di Spagna fosse quello corretto, e mi allontanai dalle mie fonti, alle quali oggi faccio ritorno. Nel mio ultimo romanzo “Terra di barbari”, recupero la mia lingua materna, è stata una necessità, e confesso di aver avuto molte difficoltà pratiche poiché vivo fuori dal paese.
Al di là del linguaggio, la mia esperienza di vita profonda appartiene all’Argentina, dove mi sono formato e sono cresciuto, dove ci sono i miei ricordi felici e quelli infelici, pertanto mi risulta impossibile rinunciare al mio passato, alla gente della mia terra e alla mia geografia.


Quanto c’è di Norberto Luis Romero nel personaggio principale di “El lado oculto de la noche” quando - spesso - ripete “sono differente”?

Tutto, il protagonista sono io, non c’è dubbio. Un bambino e adolescente che ha coscienza della realtà che lo circonda e che risulta essere ostile, che invece di giocare, andare a ballare, uccidere le rane o andare in campeggio, preferisce ascoltare musica classica, leggere, dipingere e che inoltre ha una madre che agonizza per molti anni, è fuori dalle orbite ed è solo, nessuno può comprendere il suo mondo e condividerlo, pertanto è unico. Genet diceva qualcosa del genere: “La solitudine morale dell’assassino si unisce alla solitudine dell’artista che non concepisce altra autorità al di fuori di quella di un altro artista”. Sono stato solo per tanti anni ed è stato molto duro. Il personaggio osserva con freddezza quello che accade attorno a lui attraverso queste sfere di vetro con cui vede la verità, una verità che non gli piace ed è solo perché non riesce ad inserirsi in essa, non vuole appartenere alla tribù, una tribù assurda, fatta di riti vuoti, bugie, violenza… e il personaggio apparentemente accetta la realtà con rassegnazione, senza denunciarla, e ciò che fa è trasgredire costantemente, perché è conscio della sua falsità ed ha capacità critica. Il mio primo libro di racconti si chiama “Trasgressioni”, non è un caso.


Qual è il lato oscuro dell’anima umana che più ti affascina e quello che più ti spaventa?

Quello che più mi affascina è la capacità di fare del male, l’egoismo ad oltranza, l’ignoranza e il disprezzo del prossimo perché ci si ritiene superiori. Mi affascina la cattiveria insita nell’uomo, la sua intrinseca natura distruttiva, la sua capacità di produrre dolore, e mi da fastidio che non si voglia accettare e riconoscere l’esistenza di questo lato oscuro, delle passioni umane che possono arrivare ad estremi di violenza e distruzione, e mi dispiace che si nascondano dietro una maschera o neghino con la cultura del politically correct istituzionalizzata.
Ciò che temo di più è il totalitarismo verso il quale ci dirigono molti governi, questo costante addottrinamento ideologico in cui solo i potenti possono permettersi il lusso di godere delle proprie passioni e portarle all’estremo della perversione, il lato oscuro dell’anima, e abbandonarsi a lei fino a raggiungere eventi estremi come l’Olocausto. La doppia moralità mi atterrisce, e purtroppo vedo in che modo guadagna terreno giorno dopo giorno.


In molti dei tuoi racconti vengono narrate storie difficili e dolorose (violenza sessuale in “Il fiore azteco”, un uomo vittima di sua moglie in “Mentre lei dorme”, mostruosi mendicanti di strada in “Diario del Tassidermista”) che possono avvenire nella realtà, ma in essi c’è sempre una componente irreale. Questa è una forma di autoprotezione da ciò che è angusto e doloroso (ciò che è negativo viene messo sullo stesso piano di ciò che è ironico per togliere valore ed importanza al dolore stesso) o è semplicemente un desiderio di affrontare la vita con un sorriso sul volto nonostante tutto?

Credo che la prima opzione sia quella giusta, non sono d’accordo con l’idea di affrontare le avversità della vita, il lato oscuro dei rapporti umani, il dolore, la malattia e la morte, con un sorriso, mi sembra una cosa troppo vicina al concetto cristiano di rassegnazione, al porre l’altra guancia davanti alle disgrazie. Si, credo nell’umorismo e nell’ironia, compresa quella più crudele, come alternativa quando non si può ricorrere alla ribellione o alla violenza per modificare la realtà, o per affrontare l’insalvabile “moira” o la fatalità. E’ la trasgressione, in questo caso attraverso l’ironia, un elemento estraneo alla realtà che penetra in lei come un parassita e ne distorce l’essenza, la rende contraria e la eleva al piano dell’immaginazione, con la quale la rende sopportabile oppure la distrugge.