lunedì 14 gennaio 2013

"Le ossa" di Holmberg. Un sorprendente giocattolo poliziesco

Apparso per la prima volta nel 1896, La bolsa de huesos è stato ripubblicato nel 1957 nella raccolta Cuentos fantásticos, assieme ad altri importanti racconti e romanzi brevi dello stesso Holmberg. Dopo un secondo periodo di oblio, questo “giocattolo poliziesco” – così lo definisce l’autore nella Dedicatoria presente nella prima edizione – viene rivalutato negli ultimi decenni come uno dei testi fondanti del poliziesco ispanoamericano. In realtà, prima del 1896, diversi scrittori argentini si erano cimentati con la narrazione di storie criminali. La bolsa de huesos, però, rappresenta una novità assoluta. Uno dei primi studiosi a metterne in risalto l’originalità e gli aspetti ludici è Antonio Pagés Larraya in apertura all’edizione del 1957:

La novità di La bolsa de huesos risiede nel fatto che le due direzioni del racconto si incrociano in un gioco di tecnica sagace. L’autore muove un personaggio che, a sua volta, è autore e può cambiare il corso dei fatti. Il suo obiettivo non consiste nello scoprire un delinquente, ma nel risolvere un problema. La sua intenzione è letteraria, perciò non fornisce alla sua ricerca un carattere poliziesco.

[…] Infine Holmberg ambienta la sua storia a Buenos Aires. La scelta di Holmberg non è così ovvia, se si pensa al fatto che non pochi suoi contemporanei, a furia di guardare la Francia, avevano allentato i contatti con la propria cultura e con la propria realtà, come sosterrà Gombrowicz molti anni dopo nel Diario riferendosi ai suoi colleghi argentini. Nel fare ciò Holmberg rivela punti di contatto con l’Oesterheld de L’Eternauta (1957-1959). Come è noto, il fumetto racconta di un’invasione aliena che avviene non in un lontano futuro o in una megalopoli europea o nordamericana, ma a Buenos Aires alla fine degli anni Cinquanta. E se Oesterheld, in questo modo, indica la strada a una fantascienza autoctona, Holmberg, dal canto suo, suggerisce che un romanzo poliziesco argentino non è inferiore agli illustri modelli cui si ispira per il fatto di essere argentino. Di più, anticipa una famosa tesi di Borges: gli scrittori latinoamericani possono «adoperare tutti i temi europei, adoperarli senza superstizioni, con un’irriverenza che può avere, e ha già, conseguenze fortunate».
                                                                                                           Loris Tassi

 

martedì 8 gennaio 2013

La spina nel fianco. Stati Uniti e Cuba in una prospettiva razziale, 1823-1912

La tormentata e difficile storia dei rapporti tra gli Stati Uniti e Cuba, la “gemma”dei Carabi, costituisce da sempre un irresistibile polo d’attrazione per gli studiosi a livello internazionale. Il taglio dei loro scritti è tuttavia sensibilmente mutato nel corso del tempo, allontanandosi via via dai tradizionali approcci strettamente istituzionali-relazionali per giungere a fare degli “statunitensi,” dei “cubani” e degli “spagnoli” i soggetti prioritari dell’indagine.
Questi avanzamenti si inscrivono nell’ambito delle rapide evoluzioni storiografiche degli ultimi due decenni, che hanno sempre più insistentemente suggerito l’opportunità di superare, fin quasi ad annullare, il rigido riferimento alle classiche categorie politico-istituzionali—gli stati nazionali—per riconsiderare lo sviluppo storico di aree geografiche e regioni in chiave transnazionale e perfino globale. Le nuove ipotesi di ricerca hanno trovato un fertile terreno di applicazione nella storia del continente americano, che per secoli fu soggetto alla dominazione coloniale europea per poi emanciparsene e dar vita a stati indipendenti. Sul sentiero tracciato dalla “nuova” storiografia atlantica, si sta ora riscrivendo la storia di un continente, quello americano, in una nuova prospettiva.
Tali fermenti storiografici hanno inevitabilmente sollecitato una profonda revisione dell’approccio tradizionale allo studio dei rapporti intercorsi nel tempo tra la Isla Grande e gli Stati Uniti. In verità, essi erano antecedenti alla nascita della repubblica nordamericana, poiché affondavano le loro radici nell’età coloniale, durante la quale si erano dispiegati in un fitto intreccio di scambi informali—sovente illegali secondo le leggi mercantiliste dell’epoca—cui si sovrapponeva la dimensione ufficiale delle relazioni tra Gran Bretagna e Spagna in primis, ma anche tra queste e la Francia, altra presenza di rilievo nell’area caraibica.
Tale prassi di scambi intercoloniali presentava aspetti economici, sociali e culturali autonomi ancorché paralleli rispetto a quelli consentiti dalle nazioni colonizzatrici europee, in quanto tendevano a permanere a dispetto delle mutevoli alleanze e delle strategie politico-militari attuate dalle loro rispettive madrepatrie per consolidare ed espandere la loro presenza nel teatro americano. Al tempo della ribellione delle tredici colonie britanniche del Nord-America la rete degli scambi intercoloniali informali era ormai così consolidata da delineare l’esistenza di una grande regione meso-americana, il cui centro dinamico era l’area caraibica, quale crogiuolo di incontri e di fusioni tra le più disparate razze, etnie e culture planetarie secondo modelli sincretici che ancora attendono di essere documentati e descritti in maniera esaustiva.
Tuttavia, l’indipendenza delle colonie britanniche del Nord-America prima e di quelle spagnole diversi decenni più tardi pose fine a quell’epoca aurea di middle ground—per prendere a prestito un’espressione coniata da Richard White per descrivere la natura dei rapporti tra bianchi di varia origine e nativi americani nel Nord-America coloniale—contrassegnata da incontri e scambi che avevano dato luogo a modelli di comunicazione e di convivenza che fondevano insieme gli aspetti delle varie culture partecipanti.
La nascita di nazioni indipendenti nelle Americhe cambiò totalmente il volto dei rapporti interamericani, facendo emergere “differenze” riconducibili alle rispettive esperienze e culture coloniali. Nello sforzo di costruire una narrativa storica atta a delineare i tratti della loro identità nazionale, gli statunitensi tesero fin da subito ad istituire una gerarchia razziale e culturale, intesa anche in senso confessionale, che poneva i colonizzatori britannici del Nord-America al vertice di una piramide i cui strati più bassi erano occupati da etnie e razze ritenute inferiori: i cattolici ispanici innanzi tutto e poi, via via, i latinos bianchi—i creoli—, i sanguemisti che essi avevano generato e giù fino agli indios e ai neri africani. Il loro atteggiamento razzista rese impossibile l’avvio di un sano dialogo basato su scambi e collaborazioni paritarie tra i novelli Stati Uniti e le repubbliche centro-sudamericane emerse da quasi un ventennio di lotte per affrancarsi dalla do-minazione spagnola. La storia di questi difficili rapporti è stata scritta e riscritta secondo diverse prospettive e ancora sarà rivisitata, a mano a mano che gli storici avranno acquisito sensibilità sempre più sofisticate nell’apprezzamento dei molteplici fattori che l’hanno influenzata e ne hanno determinato il corso.
Queste sono le premesse su cui si innesta l’opera prima di Alessandro Badella, che […] ha presto individuato nel caso di Cuba un terreno fertile e assai poco battuto in Italia per esemplificare le problematiche e le dinamiche dei rapporti tra Stati Uniti e America Latina. Infatti, se a primo acchito Cuba sembra rappresentare un capitolo a parte e per molti versi unico nella loro travagliata storia, il lavoro di Badella la eleva a caso-studio per comprendere il modello della penetrazione degli Stati Uniti in centro-sud America, che si fondò sul sodalizio tra politica, grandi interessi economici ed élite, militari e non.
Il quadro dell’analisi condotta da Alessandro Badella è sofisticato ed articolato, in quanto tende a conciliare e fondere nella sua narrativa diversi piani di lettura, da quelli politico-internazionali a quelli ideologici e culturali e a quelli sociali. Il suo è pertanto un contributo innovatore che mai perde di vista, nel corso della trattazione, la complessità del groviglio tra le relazioni ufficiali che gli Stati Uniti intrattennero nel corso del tempo con le potenze europee e con la Spagna in particolare, in quanto proprietaria dell’Isola, e le varie posizioni espresse dai cubani in merito al suo futuro in seguito all’affrancamento dalla madrepatria. Negli ultimi due decenni dell’Ottocento, i creoli cubani riponevano le loro speranze negli Stati Uniti per liberarsi dal giogo spagnolo e una parte di loro auspicava perfino l’annessione agli Stati Uniti. Non così José Martí, l’autentico ideologo e l’anima dell’indipendenza cubana.
La presenza ingombrante di Cuba in quel mare interno che gli statunitensi si abituarono a considerare come il loro “cortile di casa”  fin dall’inizio del Novecento aveva già da tempo rappresentato e continuava ad essere una “spina nel fianco” per gli Stati Uniti. E ancor di più lo sarebbe stata nei decenni a venire. Un’isola indomita, che a caro prezzo si sarebbe fieramente opposta e sottratta al controllo da parte del gigante Nordamericano. La lotta ad oltranza in-gaggiata dai cubani per liberarsi dei regimi militari-dittatoriali filo-statunitensi in cui era sprofondata dagli anni Venti del Novecento, tra Machado e Batista, la coraggiosa sfida lanciata agli Stati Uniti dal movimento capeggiato da Fidel Castro e la sua vittoria pongono da molti decenni Cuba al centro dell’attenzione internazionale. Ciò, a maggior ragione, nelle circostanze attuali, che presagiscono  profondi cambiamenti nel regime dell’Isola al tramonto dell’era castrista.
Badella non si spinge a considerare gli aspetti più contemporanei dei rapporti tra Cuba e gli Stati Uniti. Il suo contributo di storico è invece quello di far luce sulle circostanze, gli eventi, i climi intellettuali che determinarono il fallimento di un grande progetto che avrebbe potuto fare di Cuba un esempio preclaro di nazione indipendente, improntata alla convivenza multietnica e multirazziale cui potessero ispirarsi i nuovi stati centro-sud americani. Purtroppo, come sappiamo, ciò non si verificò, ma mentre la resistenza ad oltranza di Cuba continua ad essere una spina nel fianco per gli Stati Uniti, il suo esempio è linfa vitale nell’alimentare le speranze di emancipazione neo-coloniale da parte dei paesi latino-americani.
Il libro di Alessandro Badella chiarisce tutta una serie di premesse che fecero da sfondo alle successive evoluzioni dei rapporti tra Cuba e gli Stati Uniti e costituisce pertanto una lettura irrinunciabile per tutti coloro che sono interessati a comprenderne i prodromi.


Dalla Prefazione della prof.ssa Susanna Delfino, Università degli Studi di Genova