venerdì 27 gennaio 2012

"Verrà la guerra e..." - 27.01.1945 per non dimenticare

Didi si sente come una povera mendicante. Una volta per paura degli aerei che volavano a bassa quota si è gettata a terra rovesciando tutto il latte. Si è arrabbiata molto perché era quasi un mezzo litro che avrebbe potuto dare in parte a Stropsi. A lui piace tanto e trascina con la bocca la sua ciotola appena vede Didi con il bricco.
Adesso vincono gli altri. In Africa, in Italia, in Francia, nella Slesia. Bombe dirompenti, bombe incendiarie cadono sulle città, anche su quelle vicine, Norimberga, Würzburg e Schweinfurt. Quando Schweinfurt viene bombardata, Didi sente il fragore.
La notte non fa freddo, anche se la primavera è appena iniziata. Non è una notte particolare. È una notte chiara. Dovunque silenzio. Non c’è stato l’allarme aereo. Ma la mattina penzolano dagli alberi di fronte alla casa, al margine della strada. Il verde dei rami è ancora tenero e rilucente. Penzolano a un palmo dal suolo.
In fila.
Le teste piegate di lato.
Con le divise tutte insozzate dalla bava.
Ragazzini, non molto più grandi di Didi.
Impiccati di nascosto in nome del Führer.
Con un cartello di cartone sul petto.
Disertore.
Didi scopre gli impiccati quando apre la finestra.
Dapprima resta rigida, muta, immobile. Poi afferra Stropsi. Lo afferra alla nuca. Lo solleva, lo scuote. Grida: ”Perché non hai abbaiato!“. Continua a scuoterlo. Non smette di gridare contro di lui. “Stupido animale, perché non sei stato attento?“. Lo butta a terra con uno spintone.
Si getta sul letto. Piange.
Restano appesi alcuni giorni. Lasciati lì a fare mostra di sé, come ammonimento. Una mattina sotto gli alberi si vedono dei fiori. Non a lungo.

Inge Obermayer, Verrà la guerra e... Un'infanzia in Germania 1933-1945", traduzione a cura del Prof. Francesco Maione, pp. 99-100

"Napoli barrio latino" visto dal CSER

"Frutto di un lavoro di dottorato, il libro indaga i flussi migratori che dall'America Latina si dirigono verso l'Europa, innescando un'inversione di tendenza rispetto alle direttrici migratorie tradizionali dell'Ottocento e della prima metà del Novecento. Lo studio approfondisce il profilo della migrazione dai paesi centro e sudamericani attraverso una ricerca qualitativa e interpretativa, che ha raggiunto una ottantina di persone, generalmente latinoamericane di lingua spagnola di prima generazione. Il luogo dell'indagine è Napoli, dove la presenza di immigrati (in particolare donne eritree impegnate nei lavori domestici) risale agli anni Sessanta. Anche i flussi dai paesi latino-americani, iniziati negli anni Sessanta, sono inizialmente connotati da una forte presenza femminile di prima migrazione: donne dominicane, colombiane, cubane... giunte come collaboratrici domestiche. Una seconda fase - a partire dagli anni Ottanta - vede consolidarsi la presenza femminile, ma anche la crescita di quella maschile. In Campania, tuttavia, la comunità dell'America Latina rimane minoranza. Pur nell'impostazione un pò schematica (del resto consona alla sua natura di lavoro di tesi), il libro offre un importante contributo alla conoscenza dei processi di integrazione sociale in un'area decisamente poco esplorata come quella delle città del Sud Italia." (MG)

Studi Emigrazione, Rivista trimestrale del CSER (Centro Studi Emgrazione Roma),  anno XLVIII, ottobre-dicembre 2011, N. 184, p. 702

giovedì 26 gennaio 2012

Tassisti a Caracas?

Caracas, 14 novembre 2004
Tassisti a Caracas?
Visto che il tassimetro non esiste, il prezzo lo contratti prima. Devi simulare l’accento venezuelano, guai a farti scambiare per un gringo. Più difficile ovviamente se sei straniero, hai capelli biondi e occhi chiari. Ma col tempo, si sa, le tecniche si affinano, la metamorfosi  momentanea si perfeziona.
Allora prepari allo specchio il profilo più venezuelano che hai, lo sguardo più venezuelano che hai, e ti accosti con molta circospezione alla macchina, evitando che la conversazione duri troppo tempo, e assicurandoti che avvenga con modi spicci. Ripetiamo, il rischio è di essere scambiato per un possessore insano di dollari, e il prezzo lievita (gringo, ricordate questa parola, sentendovela gridare addosso per strada). Dimenticatevi il tassista che conosce tutte le strade, vi apre lo sportello, che ha un satellitare, che mette su una bella musica per farvi compagnia.
L’avventura che affronterete nello sporgere un dito per strada sarà o una normale passeggiata, o qualcosa di diverso e magico? (magico? sei sicuro? No!). Come lanciare i dadi. Perché questa città è così, un teatro all’aperto, un po’ tragico, un po’ comico, ma sicuramente surreale.
Certo il tassista sarà perfetto e il servizio impeccabile, perché a volte accade anche questo. Ma il tassista potrebbe non conoscere la strada dove dovete andare: per fare quel lavoro non ha dovuto fare nessun corso, né chiedere alcuna licenza. Una macchina, un cartello con su scritto taxi, e anche un reperto archeologico, con le gomme non equilibrate, che traballa e caccia fumo nero, può trasportarti nelle notti insonni di Caracas.
La regola vorrebbe che i taxi sono solo quelli con la  targa gialla, una specie di licenza necessaria ma non necessaria. Una spina nel fianco alla logica, al principio di non contraddizione. A non può essere B, ma un taxi può essere un taxi anche senza esserlo. Anche voi, fortunati proprietari di un’auto, potete trasformarvi in un lavoratore del caos (considerando il traffico), con la vostra semplicissima carretta. Se avete bisogno di soldi, una notte da tassista!
Il servizio non è costoso per le tasche europee, ma la qualità. Lungo la mia strada di cliente ho trovato di tutto: tassisti che fumano con te dietro, altri che mettono la musica al massimo (reggaeton a palla), altri che non sapendo dove andare si arrabbiano con te: “ma scusi? Il tassista non sono mica io?” “Però tu non sai dove andare?” “ Ma io ti dico la strada, mica anche come arrivarci?”.
Tassisti, una nuova soap opera. La cosa più eccitante? Che a volte non vogliono accompagnarti: si annoiano di stare nel traffico, o non vogliono andare in posti pericolosi. Ma non finisce qui. Non azzardatevi a fermare il tassista se siete due uomini o più e avete un aspetto poco convincente: scapperanno, perché loro, lavoratori nella notte, hanno una fottuta paura di vedersi derubati da finti clienti (fucking in inglese, fottuta in italiano).
Ma a volte sono i finti tassisti a cacciare dal cruscotto una calibro 8, per sottrarvi i quattro spiccioli che portate (se siete stati previdenti pochi, vi raccomando pochi). Insomma la Caracas tassistica è così. Finti tassisti che hanno paura di finti clienti, veri tassisti che hanno paura di veri clienti, finti tassisti che hanno paura di veri clienti, veri tassisti che hanno paura di finti clienti. Una psicosi totale. Tutti tassisti tutti ladri. Uno, nessuno, centomila.

di Piero Armenti, "L'altra America. Tra Messico e Venezuela storie dell'estremo Occidente", pp. 37-39

mercoledì 25 gennaio 2012

Confini e frontiere - Junot Diaz e i dominicani di New York

“Junot Díaz e i dominicani di New York” di Piero Armenti, pp.137-149


Óscar Wao è poco conosciuto in Italia, ma chi entra nelle librerie di New York vedrà primeggiare tra gli scaffali il volume The Brief Wondrous Life of Óscar Wao o nella traduzione spagnola La breve y maravillosa vida de Óscar Wao. Junot Díaz è l’autore. Giovane scrittore quarantenne nordamericano, scrive in inglese ma parla di America Latina, o meglio di quella parte caraibica a cui è legato: la Repubblica Dominicana. Ha vinto con la tragica storia di Óscar Wao il premio Pulitzer, il più ambito per gli scrittori nordamericani, che consacra la fama verso il grande pubblico. La sua fortuna letteraria dipende proprio dall’oggetto delle sue attenzioni: i dominicani negli Stati Uniti proprio mentre l’emigrazione dal subcontinente verso il vicino del nord è diventata attualità nell’agenda politica, soprattutto per i problemi legati ai clandestini.
La realtà latina negli Stati Uniti confonde diverse generazioni tra loro, ne esce fuori una latinità made in Usa molto articolata. L’emigrazione latinoamericana attuale, con i suoi aspetti tragici, incrocia chi è emigrato anni addietro, le cui seconde generazioni sono ben integrate nel circuito cittadino, ma soprattutto sono in aumento. Come riporta un grafico del “New York Times” la quantità di persone nate fuori dagli Stati Uniti, che ora ha più di 65 anni, ha visto impennare proprio los latinos, e i loro figli oramai si avviano verso la quarantina, l’età anche di Junot Díaz. Si scopre così che rispetto a quaranta anni fa, gli europei sono la metà (anche gli italiani passano da quattrocentomila a duocentomila). I messicani raddoppiano. I canadesi rimangano stabili. I sudamericani decuplicano. E gli asiatici? Decuplicano anche loro. Aumentano anche australiani e africani, ma in pratica l’ultima emigrazione viene da Asia e Sud America.
L’impennata dei numeri fa nascere e crescere un timore ossessivo criptorazzistico difficile da essiccare in un’analisi lucida. Il timore è che gli immigrati latini non si integrino come hanno fatto altri in passato, e contendano l’egemonia dei costumi agli angloparlanti di origine bianca.
La penna di Junot Díaz ribalta l’assunto; dà spazio all’altro punto di vista, non ai minacciati, ma ai minacciosi ispanici, quasi a replicare in forme urbane e contemporanee un eterno ritorno a quell’origine americana che è lotta di bianchi contro tutti per la supremazia, ed è così che attraverso la sua penna prendono forma le paure, le speranze di una delle comunità emigranti più importanti degli Stati Uniti, quella dei dominicani. Se un libro sulla diaspora dominicana, per diaspora intendiamo il processo di emigrazione di dominicani che c’è stato negli anni Sessanta, alla fine della dittatura di Trujillo, ha tanto successo negli Stati Uniti in cui la cultura duale dominante è quella chicana, non è solo perché scritto bene, per la trama accattivante; c’è un motivo ulteriore, o un motivo strutturale che va cercato nel mercato editoriale. È da quello che bisogna partire per interpretare Junot Díaz non come un’individualità letteraria ma come frutto di un’emersione collettiva.
Negli Stati Uniti è venuto fuori un diverso tipo di lettore di origine latinoamericana: è di seconda generazione, spesso con un alto livello di studi; molti sono giovani che frequentano l’università grazie agli sforzi dei genitori e consumano prodotti culturali che aderiscono e raccontano la loro realtà che non è quella del bianco anglicano protestante che vive nella villetta a schiera, ma della vita comunitaria della periferia povera ma vitale delle grandi città, e i conflittuali rapporti con il ramo della famiglia che non è emigrato. Fa da collante la memoria del distacco, dell’immigrazione. I dominicani di seconda generazione sono duali, integrati/disintegrati a seconda del punto di vista, quasi tutti parlano spagnolo (come d’altronde Junot Díaz, che però scrive in inglese), e sono coscienti delle loro origini (potremmo dire senzienti). Questa parte della popolazione è cresciuta a tal punto da esser diventata se non egemonica nella cultura nordamericana, quanto meno consistente, tale da muovere reddito editoriale. Con queste scelte individuali, da homo consumens, vengono indirizzati gli investimenti delle case editrici, in cerca di nuovi talenti latinoamericani di seconda generazione capaci di esprimere e raccontare una identità duale.
È un trend in crescita, se analizziamo i dati demografici osserviamo come il 42% dei dominicani ha meno di 24 anni, e i dominicani (1.217.2555) sono la quinta comunità dopo messicani (28.339.354), portoricani (3.987.947), cubani (1.520.276) e salvadoregni (1.371.666). La maggiore concentrazione si trova tra New York (soprattutto il quartiere Wasghinton Heights) o nel New Jersey.
Ma al di là delle specificità, bisogna superare la semplice equazione etnico-identitaria, secondo cui Junot Díaz esprime la realtà di integrazione/disintegrazione dei dominicani. Non sono solo questi ultimi i principali fruitori dei suoi libri: negli Stati Uniti, il fenomeno migratorio è così pervasivo, determinante, che l’argomento è sempre verde per tutti, è quindi letteratura universale. Junot Díaz racconta la realtà dei dominicani negli Stati Uniti, ma per assimilazione, si potrebbe dire la realtà degli ispanoamericani negli Stati Uniti, e quindi una sfaccettatura dell’identità americana. Paradossalmente non scrive in spagnolo, si esprime in una lingua che non è quella delle origini, usa uno slang americano sporcato ulteriormente dal dialetto dominicano con cui infarcisce la sua narrativa, e la rende autentica: sono le parole che ascolta dalla nonna, è la lingua di strada: Bendición Mamí, Papi, compa’i, tío, Que dios te bendiga.
Il personaggio principale del suo romanzo è Óscar Wao, figlio di dominicani emigrati nel New Jersey. Quella di Óscar è la tipica famiglia a metà tra parenti rimasti in una Repubblica Dominicana calda, da cartolina, ma povera, e Stati Uniti raccontati come terra di opportunità. Óscar si immerge nella terra degli avi quando va a trovare le nonna a Santo Domingo, mentre la vita urbana statunitense si trascina avanti senza grandi emozioni, in quell’immensa provincia del New Jersey, che scorre liscia e moscia. Ma dietro l’apparente neutralità del tempo, si cela un trauma silenzioso. Óscar ha la sfortuna di essere brutto, in un mondo di emigranti in cui dominano donne bellissime che ballano da diosa, e veri maschi, cattivi e pieni di donne, grande orgoglio delle madri. Óscar, semplice nerd, ossessionato dai giochi di società, insegue corpi che non può avere. A ogni mossa riceve un rifiuto. Giorno dopo giorno peggiora, sprofonda nella solitudine di una vita di miserie, in cui è l’amico perfetto delle donne, ma sui cui corpi si divertono altri. Se si guarda allo specchio, vede riflesso un bamboccio troppo grasso, con un viso senza grazia, poco interessante. Per passare il tempo si getta nella narrativa: scrittore di libri di fantascienza, che non verranno mai pubblicati. La sua è una bocca che cerca labbra che non riesce a trovare. La sorella e il suo amico (vero macho) assistono impotenti alla débâcle di un giovane dominicano disperato, che tenterà anche il suicidio. È la maledizione che perseguita la sua famiglia, la malasorte, fukú, che colpisce la madre (ammalata di cancro), la nonna (altra vita di stenti) e gli altri avi, in una dissacrante riproposizione di una epopea familiare, seguendo i canoni del Márquez di Cent’anni di solitudine, ma ribaltandoli nel tragico. Ma c’è sempre un gesto eroico che può riscattare dal torpore del non senso. E anche nella vita di Óscar arriva il momento, e Junot raggiunge l’apice. Nella sua Santo Domingo si innamorerà di una donna pericolosa, consumata, di un militare, rappresentativa e caricaturale dei tropici peccaminosi inseguiti da schiere di attempati europei e nordamericani.
Fa da sfondo la Repubblica Dominicana del dittatore Trujillo (1930-1961), che dominò per oltre trenta anni il paese come padrone assoluto, circondandosi di un harem di donne bellissime a dispetto della moglie non particolarmente avvenente, un paese corrotto di cui ha fatto un ritratto, nella fase discendente della dittatura, Mario Vargas Llosa ne La fiesta del chivo.
Dalla lettura critica del testo ne deriva innanzitutto una visione caricaturale e veritiera dell’archetipo dominicano di prima generazione, trapiantato dalla povera Santo Domingo ai quartieri popolari del New Jersey. Ne esce fuori un prontuario interpretativo molto piacevole, e condizionato dal maschilismo. Il maschio, appunto, è dominante, picchia, conquista, seduce, abbandona. «Tu tá llorando por una muchacha, dale un galletazo a ver si la putica esa te respeta».  A consigliare di picchiare la propria donna non è un uomo, ma paradossalmente sono i consigli della madre al figlio, deluso per amore: picchiala per farti rispettare. Ma altrettanto caricaturale è l’immagine della donna. La dominicana picchiata e felice diventa una tipologia: «Maritza era una de esas muchachas a las que les gusta que los novios les peguen, ya que lo hacían todo el tiempo». La regola prima per una vera donna è mettere in risalto la propria femminilità con orgoglio quasi patriottico. Nella parte dedicata alla madre di Óscar si legge: «Tanto ha cambiado en estos meses, en mi cabeza, en mi corazón. Rosío me hace vestir como una “muchacha dominicana de verdad”. Ella es la que me ayuda a arreglarme el pelo y a maquillarme y, algunas veces, cuando me veo en el espejo, ni me conozco». Il clichet della figlia dominicana è altrettanto rivelatorio: è quello della schiava perfetta. «No saben lo que es ser la hija dominicana perfecta, lo cual es una forma amable de decir la esclava dominicana perfecta». Ma l’archetipo salta se ti trovi a New York, dove la donna lavora, è indipendente, le pressioni sociali e familiari diminuiscono, e allora si può aderire ad un modello di riferimento che non è più quello dominicano di provenienza, incolto e povero, della schiava, ma emancipato: la stessa sorella di Óscar vive il mutamento, e viene descritta come «una de esas dominicanas duras de Jersey, corredora de largas distancias, con su propio carro, su propio talonario de cheques, que le decía “perros” a los hombres y se comía al que le daba la gana sin una gota de vergüenza, especialmente si el tipo tenía baro». Baro sono i soldi, era ricco.
Ma da contraltare alla donna bella, felice e spesso picchiata, c’è la scena disperata che si guadagna Óscar, perché fa pena davvero un dominicano senza donne, a cui tutti dispensano i propri consigli di mascolinità, compreso il donnaiolo zio Rulfo, dal linguaggio colorito: «Escúchame palomo, coge una muchacha y méteselo ya. Eso lo resuelve todo. Empieza con una fea. Coge una fea y méteselo», un esempio di dominicano vincente: zio Rulfo ha quattro figli con tre mogli diverse, simbolo assoluto di virilità. Dunque se l’uomo dominicano deve controllare i ventri di tante donne, deve anche dedicarsi alle gioie del sesso il prima possibile, pena diventare bersaglio di scherno da parte degli amici, come si vede in questa conversazione di Óscar: «Oye, alguna vez en la vida has probado chocha? Le preguntaba Melvin, y Óscar sacudía la cabeza y le contestaba con decencia, sin importar cuántas veces Mel repitiera la pregunta. Debe ser lo único que no has comido, no? Harold comentaba, Tú no eres ‘na dominicano, pero Óscar insistía con tristeza, Soy dominicano, dominicano soy».
Sullo sfondo, coprotagonista assieme a Óscar Wao è il dittatore Trujillo. «El Dictador más Dictador de todas las Dictaduras de la Historia. Era un país, una sociedad, diseñada para que fuera prácticamente imposible escapar. El Alcatraz de las Antillas». Il dittatore diviene una caricatura crudele del tipo dominicano, è un uomo delirante nella pretesa di avere tutte le belle ragazze dell’isola, perché tutto doveva essere suo:

Trujillo pudo haber sido un Dictador, pero era además un Dictador Dominicano, lo que es otra manera de decir que era el Bellaco Número Uno del País. Creía que todo el toto en la RD era prácticamente suyo. Es un hecho bien documentado que en la RD de Trujillo, si uno era de una clase dada y dejaba a su hija linda cerca de El Jefe, a la semana estaría mamándole el ripio como una profesional […] Era parte del precio de vivir en Santo Domingo, uno de los secretos mejor conocidos de la isla.

Il dittatore è padrone di tutto, e molti sono costretti a emigrare; per il dominicano lontano dall’isola, magari sottoposto ai ritmi di vita della fredda New York, Santo Domingo, seppur povera, rimane la tappa ideale in cui trovare riparo e cura. Una verità di ritorno al piacere, alla spontaneità, che è presente nel libro di Junot Díaz (Óscar Wao d’altronde cerca lì riparo contro i suoi insuccessi sentimentali, e lì riesce a trovare il suo unico amore). Basta accendere una radio ispanica di New York, ed è facile ascoltare una conversazione del genere che riportiamo. La donna si domanda perché suo marito si comporti male tornato a Santo Domingo, insegua altre donne, la abbandoni e se ne lamenta. Con un’ingenuità tipica maschile, il conduttore difende la categoria: «Ma tu lo sai, tu lo sai quant’è dura la vita per noi a New York, costretti a lavorare tanto. Quando allora torni a casa, ben pettinato, profumato… tu sai... queste cose succedono, è normale, magari tua moglie è in famiglia, o non è venuta, ti senti forte, vuoi tornare a vivere».
Concludiamo con una domanda, è possibile considerare ispanoamericano un narratore che si esprime in inglese, e che neanche conosce lo spagnolo? Pur non volendo affrontare in questa sede questioni più complesse quali la lingua, la letteratura e l’identità, è utile dire che senza alcun dubbio l’incremento della seconda generazione di latinoamericani negli Stati Uniti è un fatto che costringe il letterato a misurarsi con un panorama dinamico e soprattutto transnazionale, in cui la letteratura latinoamericana non necessariamente sarà in lingua spagnola, ma non per questo sarà meno ispana. In tono polemico, in un’intervista a “El País”, alla domanda di cosa significasse vincere il Premio Pulitzer, Junot Díaz ha risposto: «Espero que arroje algo de luz sobre los escritores latinos de EE UU, que en mi opinión son ciudadanos de segunda en la república de las letras norteamericanas y latinoamericanas». Riguardo invece la tradizione letteraria latina negli Stati Uniti l’autore ha le idee ben chiare: «Creo que está todavía por surgir. Constituimos un canon disperso. Están los chicanos, los escritores de Nuevo México, los caribeños. Yo hablaría de textos, más que de escritores». Sarà allora Junot Díaz lo scrittore capace di capitanare la ribalta degli ispanici negli Stati Uniti? Di inaugurare una positiva stagione letteraria utile anche a condizionare l’agenda politica nei confronti degli ispanoamericani, e la loro porzione più debole: i clandestini?

mercoledì 18 gennaio 2012

l'Arcoiris scommette sugli ispanoamericani

"Il 2012, per gli appassionati di letteratura ispanoamericana, inizia con due nuove collane della casa editrice salernitana Arcoiris: "La battaglia dei libri", che accoglie saggi su autori ispanoamericani, inaugurata dall'interessante volume di Livio Santoro "Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges", e "Gli eccentrici", destinata a far scoprire al pubblico italiano aspetti della narrativa ispanoamericana rimasti finora nell'ombra. Il primo libro uscito in questa collana è "La piena" di Carlos Dámaso Martínez (traduzione finanziata dal Ministero degli Affari Esteri, del Commercio Internazionale e del Culto della Repubblica Argentina). Non poteva essere esordio migliore. Dámaso Martínez è uno scrittore e critico argentino divenuto di culto nel proprio paese in seguito alla pubblicazione, nel 1982, di Hay cenizas en el viento, intenso romanzo che prende spunto da un verso di Borges per raccontare gli anni dell'ultima dittatura. La piena, uscita in Argentina nel 1997 con la prestigiosa casa editrice Beatriz Viterbo, è, come afferma María Cecilia Graña nell'introduzione, una raccolta "di particolare interesse per il lettore italiano in quanto in alcuni racconti viene mostrato uno squarcio paesaggistico, sociale e linguistico della provincia argentina, altrimenti poco rappresentata nelle narrazioni tradotte in Italia". Ciò è evidente nella nouvelle che dà il titolo al libro, una perfetta commistione di fantastico e poliziesco in cui si racconta di un'inondazione che trascina a valle un "enorme" e inquietante mistero da svelare. Non meno intensi sono i racconti che seguono: l'allucinato Il resoconto impossibile, splendido omaggio allo scrittore uruguaiano Horacio Quiroga, Incontri velati, quasi una storia alla Dorian Gray, in cui l'annullamento della temporalità e il tema del doppio incontrano l'atroce realtà della dittatura del '76, e I giorni dell'Eden e Come una visione, in cui la fascinazione esercitata sui protagonisti dalle figure femminili si inserisce in una cornice di grandi sconvolgimenti storici. In Dámaso Martínez ogni dettaglio descrittivo, ogni evento, ogni situazione solletica il lettore, tenendolo sul filo passo dopo passo, come se qualcosa di sconcertante dovesse avvenire nella narrazione da un momento all'altro. Come nel caso di Bolaño, si potrebbe parlare forse di una poetica dell'incompiutezza. Anche in Dámaso Martínez l'epifania non si manifesta mai nel testo, ma solo nel lettore".

Recensione di Emanuela Guarnieri comparsa su "Roma" sabato 14 gennaio 2012

mercoledì 4 gennaio 2012

"Passione e sconfitta" di Rafael Flores Montenegro

"Molte volte la cagna della malinconia entra e si mette in un angolo della casa. Nei suoi occhi vedo silenzi ancora invulnerabili e mi è difficile cacciarla via. Mi inquieto. Cerco il sapore del vino che dà allegria, l'amore che brucia, immagino orizzonti senza lei. Dopo un po' se ne va senza che me ne accorga. In alcuni momenti la sua presenza è insidiosa, sebbene sia solita trascorrere periodi senza che il suo trotto indolente ondeggi sui marciapiedi... e allora penso che non ci sia più."
Ricostruire, narrare, descrivere momenti difficili e dolorosi della propria vita non è mai facile quando ciò significa uno scontro inesorabile tra i "fatti" che la memoria vuole testimoniare e il tentativo costante dell'uomo che vorrebbe dimenticare o, per meglio dire, allontanare l'angoscia e la traumaticità di quegli stessi eventi.
In "Passione e sconfitta", come chiarisce il sottotitolo del libro - Memoria della Mesa de Gremios en Lucha. Argentina, 1973-1976 -, l'intenzione di Rafael Flores è quella di sottrarre all'oblio o anche alla superficialità delle analisi un periodo della storia argentina che sembra passare quasi inosservato, se non soffocato, tra due momenti ritenuti comunemente più salienti: peronismo e dittatura di Videla.
La rilevanza dell'esperienza qui raccontata non è riferibile solo all'insieme dei fatti storico-sociali ma anche alle implicazioni psicologiche, emotive, relazionali di cui Rafael Flores non vuole essere l'elemento più rappresentativo ma, per l'appunto, una "voce della memoria" che lasci un segno delle lotte sociali e operaie di quel periodo.
"Passione e sconfitta" è stato pubblicato per la prima volta nel settembre del 2008 in Argentina, in una sorta di ritorno alle origini: lì dove tutto era cominciato e dove i fatti sono realtà vissuta e non ricordo o visione onirica, Flores ha sentito l'esigenza di pubblicare un testo che narrasse, in modo partecipe, l'oggettività e la soggettività di un'esperienza sottratta alla rimozione. Si tratta di un viaggio nel tempo e nello spazio che, come in una sorta di gioco di specchi, consente all'autore di ripercorrere in un modo sia intimo sia profondamente lucido, un frammento del passato del suo paese che per molto tempo la storia "ufficiale" ha cercato di ridurre al silenzio, di rendere invisibile, di fare scomparire come le migliaia di desaparecidos negli anni della cosiddetta guerra sucia.
Rafael Flores usa la pagina bianca per incidere i propri pensieri, i propri ricordi in un presente che vuole sempre più rinchiudere questi eventi nel paese dell'oblio; Flores, infatti, cerca costantemente di stabilire un ponte con i suoi lettori, non per dare risposte o certezze ma per porre delle domande, per creare inquietudine, per smuovere le coscienze, per dare vita a un dialogo, impossibile quando il potere costituito riduce soltanto a un numero il valore dell'individuo e della persona.
Tutto ciò nasconde, allo stesso tempo, una profonda ansia di riempire un vuoto, sia esso intellettuale o intimo, ed è per questo che non è importante trovare a tutti i costi una risposta poichè ciò che conta davvero è essere capaci di vivere fino in fondo l'interrogativo proposto, quella domanda che sia in grado di restituirci la capacità di esplorare con uno sguardo diverso noi stessi e la realtà che ci circonda, una realtà che, seppur lontana nel tempo, è ancora oggi presente nel ricordo e nel dolore di chi è sopravvissuto.

Antonella De Laurentiis, tratto dalla Prefazione di "Passione e sconfitta. Memoria della Mesa de Gremios en Lucha. Argentina, 1973-1976"