lunedì 13 febbraio 2012

La piena - Scrivere è un sogno che inquieta ma porta consiglio

Non c’è una sola cosa al mondo che non sia misteriosa: Jorge Luis Borges  ci avvertì per tempo a noi profani.  Figuriamoci se non lo sia a maggior ragione l’arte in quanto tale che si alimenta solo e soltanto di  ”irrealtà visibili” (ancora Borges), la creazione letteraria che infittisce il mistero dando spago all’ignoto il quale agisce non solo girato l’angolo, ma anche dentro casa, di più: dentro la propria anima. Frequentando il genere fantastico si inciampa nell’irrealtà, nell’inconsueto vestiti in abiti d’ordinanza. Frequentando poi il fantastico prodotto in ambito letterario ispano-americano, sorpresa,  s’incappa in una realtà che è insieme irrealtà concreta e iper realtà, miscuglio inestricabile che richiede indagini persino poliziesche. Si legga senza farsi pregare anzi di slancio che ne vale la pena e viva iddio vale la perdita di argini, La piena, raccolta di racconti dell’argentino Carlos Dàmaso Martìnez, saggista e scrittore argentino contemporaneo nonché giornalista e sceneggiatore. Le sue sono composizioni “alterate” ma non altere che senza ombra di dubbio, proprio per la loro capacità di espandere l’Ombra della realtà Borges avrebbe ospitato in quell’Antologia della letteratura fantastica che con l’amico letterato Adolfo Bioy Casares e sua moglie, la poetessa Silvina Ocampo realizzò alla fine degli anni ’30 in base alle predilezioni letterarie condivise. La piena (titolo originale La creciente) è stata pubblicata in Italia dall’intraprendente casa editrice salernitana Arcoiris nella collana diretta da Loris Tassi e a giusto titolo definita ‘Gli eccentrici’ e si gusta nell’apprezzabile traduzione di Francesco Fava e Giulia Failla. 
Cosa accade dunque in questi racconti? Per sommi capi, salta decisamente il senso delle proporzioni, salta la dimensione spaziotemporale consueta, salta l’identità apparente ma anche presunta, lo straordinario si immette nell’ordinario; si è qualche volta immersi in un lucido delirio onirico, comunque in una nitida dimensione ipnotica (ancora Borges: ‘la letteratura non è altro che un sogno guidato’), salta l’abitudine, la seduzione femminile ha una valenza magica. La piena è il racconto d’apertura che dà il titolo alla raccolta e ci catapulta in un paesaggio argentino in cui all’improvviso si materializza portata dal fiume straripante una gigantesca cavalla bianca morta. “Ombra gigantesca e iperbolica, ‘spazio scuro e sconosciuto’, il carattere sinistro dei fatti, delle persone o degli animali appare caratterizzato dall’enormità”, scrive nella suggestiva introduzione Maria Cecilia Graña. La realtà, non cercate di contenerla in argini, straripa sempre come le acque di un fiume. Ma l’animale fantastico dopo aver spaventato, turbato, incuriosito, dopo essere stato calpestato e visitato, viene “normalizzato” da chi addirittura tenta di utilizzarlo per fini turistici, di sfruttarlo economicamente, di mummificarlo così che sia redditizio per sempre. Damaso Martinez sa mescolare con maestria il fantastico al poliziesco e così l’evento soprannaturale diventa oggetto d’indagine da parte del protagonista del racconto che si muove nella matassa di un sogno che però, malgrado l’indagine, non si sbroglia. Eccetto se non si spieghi tutto risalendo al nome della località da cui viene la gigantesca cavalla trascinata dal fiume, I giganti, o immettendosi in una dimensione meta letteraria: “Non potei fare a meno di pensare a Moby Dick“, dice il protagonista.
Nel mondo di Damaso accade anche che si comunichi l’indicile come nel Resoconto impossibile dove il protagonista intraprende un viaggio nell’al di là per darne notizia ai lettori. Se non che, a parte l’uso simbolico e ricorrente dell’acqua, del bianco, della luce, a parte l’enormità stavolta di una camera d’aria galleggiante e la presenza di corvi sinistri, i limiti si perdono e non si può davvero fare rientrare un’esperienza oltre i limiti quale la morte è in qualche categoria consueta. L’enormità è indizio di una realtà che sfugge ai criteri ordinari. Nel racconto Come una visione un giardino smisurato contiene una gabbia altrettanto eccedente che custodisce un condor: evocatore di qualcosa di straordinario o terribile. Questo bestiario diffuso che sparge inquietudine, paura, discontinuità ha legami di parentela con lo scarafaggio di Kafka, le labrene, le blatte e i lupi mannari di Tommaso Landolfi ma rimanda pure, ancora una volta, al Borges del Manuale di zoologia fantastica. Appartengono alla stessa famiglia e si manifestano in formato extra-large forse per svelare la nostra microscopica radura di vita. Tutto in una cornice in apparenza familiare e conosciuta mentre si è immersi nello svolgimento consueto della vita quotidiana. Negli Incontri velati si palesa la questione dell’identità e del doppio:un uomo vede un suo antico compagno nelle sembianze uguali  a quelle di 18 anni prima, come se il tempo per lui non fosse mia passato. E qui la meta letteratura spiega: “Pedro il giovane, l’eterno, il Dorian Gray di questa storia”.  Tutto sembra un grande equivoco o un sogno. Forse l’amico è un desaparecido perché molti sono i riferimenti alla storia argentina in questi racconti; certo è che il protagonista si ritrova in una casa che per forme e caratteristiche pare visione di un sogno o somma di carte dei tarocchi, popolata da un’umanità equivoca, e viene sedotto dalla moglie dello strano Dorian Gray perché anche lei stenta a riconoscere suo marito e cerca altri piaceri. Tutto può essere solo ‘una perfetta allucinazione’ o un continuo passaggio di stato fino a che non si scivoli da dove si è venuti. Passando da I giorni dell’Eden (racconto che chiude il libro) al ricordo, allo stato di congiunzione di essere e non essere. E scrivere “non è niente più di un sogno che porta consiglio” (Borges).

Piera Lombardi, AtlantideZine, 12 febbraio 2012

giovedì 9 febbraio 2012

"Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges" visto da REF

Le riflessioni di Livio Santoro sulle implicazioni filosofiche dell’opera di Borges hanno il pregio di inscriverne il portato nel quadro della più ampia presa di congedo – che informa larga parte della filosofia del Novecento – dalla centralità accordata alla soggettività da Descartes all’alba della modernità. Se la filosofia di Hegel può essere considerata come il vertice speculativo del ruolo fondante accreditato alla soggettività, l’opera letteraria di Borges rappresenta una profonda e radicale problematizzazione del primato “ontologico” assunto in generale dalla soggettività nella modernità. 
Risulta del tutto evidente come ciò non sia una sola esclusiva di Borges. Infatti, Santoro adduce come esempi di “tentativi di abbandonare la questione ontologica” (p. 22) della soggettività Essere e tempo (1927) di Heidegger (in particolare la categoria esistenziale della “gettatezza” (Geworfenheit) nel mondo), ed i Principi di una filosofia della morale (1972) di Pietro Piovani, in particolare il principio dell’assenzialismo che interpreta programmaticamente la soggettività come “assenza di fondamento”. La gettatezza e l’assenza di fondamento allora “fondano per Heidegger e Piovani il soggetto come ente inizialmente e originariamente negativo” (p. 24), dando luogo ad una coerente “ontologia negativa” della soggettività. Entro queste coordinate filosofiche l’opera di Borges si configura per Santoro come il “coronamento della dichiarazione di impraticabilità del terreno dell’ontologia” (p. 27). Per documentare in maniera esemplare il ribaltamento dell’ordine assiologico scandito dal privilegio della soggettività rispetto agli oggetti, Santoro rimanda al noto racconto L’incontro tratto dal Il manoscritto di Brodie (1970), in cui si narra del duello mortale tra Uriarte e Duncan. Come spesso accade in Borges, i veri protagonisti del racconto non sono i due gauchos, ma i pugnali, gli oggetti, con cui essi si sfidano all’ultimo duello: “Entrambe [sc. le armi] sapevano combattere – non gli uomini, loro strumenti – e combatterono bene quella notte”. È, dunque, il pugnale, l’oggetto, – com’è il caso, per esempio, anche degli scacchi nell’omonimo poema di Borges – a muovere ed a istruire il processo dell’agire proprio del soggetto, rendendolo mero strumento di lotta. Indissociabile da questa caratterizzazione negativa della soggettività si rivela anche l’indagine sul tempo da parte di Borges. Infatti, nella Storia dell’eternità (1936), accanto al concetto di eternità inteso come “scorrimento lineare” (p. 38) del tempo, secondo Santoro Borges mostra come il concetto di tempo sia stato improntato nella tradizione filosofica alla nozione di ciclicità. Rispetto alla concezione del tempo come eterno ritorno dell’uguale, per Santoro Borges delinea – anche in polemica con Nietzsche – una “concezione dei cicli similari ma non identici” (p. 40) del tempo. Come si riflette ciò, in termini positivi, sulla nozione negativa di soggettività? A giudizio di Santoro, la concezione di tempo proposta da Borges implica che “l’esistenza dell’uomo, e con essa quella del mondo, segue una sorta di indeterminabile finitezza in cui poter preservare da una parte il destino della libertà e dell’arbitrio, e dall’altra anche, e contemporaneamente, le peculiarità “definitorie” della realtà stessa nei suoi diversi accenti (anche al di là dell’uomo)” (p. 40). Le diverse declinazioni cui è stato sottoposto il concetto di tempo nel corso della storia del pensiero sono interpretate da Santoro in maniera fenomenologica, ossia sono concepite nell’opera di Borges come possibili concezioni del tempo a cui corrispondono altrettante concezioni della soggettività, incarnate in maniera esemplare dai protagonisti dei racconti. A tal proposito, si pensi qui al noto racconto Funes il memorioso (1956), in cui il protagonista ha una capacità di ricordo talmente abnorme, da vivere in un eterno passato sempre attualizzato nel presente. Scrive Borges: “In effetti, Funes ricordava non solo ogni foglia di ogni albero di ogni bosco, ma ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata (…) Era quasi incapace di idee generali, platoniche” (p. 72). Prendendo come termine di riferimento contrastivo la diade heideggeriana di autenticità/inautenticità, Santoro mostra come Borges non voglia proporre una concezione del soggetto che sia più originaria di quella pensata dalla modernità, ma far vedere su un piano fenomenologico come vi siano possibili nozioni di soggetto in correlazioni a diversi concetti di tempo e di realtà. Su questo terreno, Santoro illumina – ed è qui che consiste il tratto peculiare del suo lavoro – la complessità dei personaggi borgesiani, avvalendosi delle interpretazioni fenomenologiche di Binswanger e di Minkowski. Per Santoro, infatti, Funes rappresenta in maniera esemplare un caso di soggetto psicotico nel quale la realtà, il tempo e il linguaggio sono, sì, ‘psicopatologicamente’ distorte, ma costituiscono al contempo una possibilità interpretativa degna e legittima. Scrive Santoro: “Ma l’angoscia di Funes, come d’altronde si potrebbe dire per le forme caratteriali degli altri personaggi borgesiani, non viene presentata come uno scacco ineludibile mosso all’autenticità (heideggeriana) del vissuto soggettivo, essa è ipotesi possibile di realtà (…)” (p. 76). Da questa prospettiva, Santoro mostra allora come alla temporalità vissuta dai soggetti di Borges corrisponda “una piattaforma esperienziale in cui vengono frammentati a dismisura gli accenti del reale, fino al raggiungimento paradossale della diffusione di presenti legittimi” (p. 41). E, di rimando, una concezione complessa, prospettica, della realtà interpretata da Borges come labirinto, la cui cifra costitutiva risiede nell’invalidare qualsivoglia tentativo di definizione ultima da parte del soggetto. Il labirinto o il caos “diventa la cifra negativa di un’indagine che principia come ontologica, ma che si nega nella diffusione dell’affermazione e delle legittimazione di ogni versione ipotizzabile del reale” (p. 106). A partire da questo quadro filosofico fondamentale, Santoro legge e affronta le altre tematiche borgesiane del sogno, dell’utopia, del significato della biblioteca universale, etc. Più in generale, a nostro avviso il pregio di questo volume di Santoro si configura come una rinnovata sollecitazione a leggere direttamente l’opera di Borges, la quale, benché offra notevoli spunti di discussione sui classi temi filosofici, è rimasta – anche polemicamente per bocca di Borges medesimo – letteratura e non filosofia. Se Borges stesso ha scritto che la metafisica può essere considerata come una diramazione della letteratura fantastica, resta sempre aperta la domanda – che ogni studio filosofico sullo scrittore argentino dovrà sempre affrontare – perché Borges ha scelto di fare letteratura e non filosofia.

Recensione di Daniele Petrella, 21.12.2011,