lunedì 31 dicembre 2012

Resoconto

Fra poche ore finirà un anno duro e sofferto, le difficoltà incontrate negli ultimi mesi sono state superiori alle previsioni, e noi tutti con estrema fatica stiamo tenendo duro, o almeno ci stiamo provando. Ciò nonostante molti traguardi sono stati raggiunti, e noi dell'Arcoiris abbiamo avuto qualche soddisfazione che ci induce a non demordere e a continuare a lottare lungo l'arduo percorso che quotidianamente affronta una piccola casa editrice.
Il mio grazie principale va al prof. Loris Tassi (Università Orientale di Napoli), direttore editoriale di due collane ed amico, disposto a sacrifici per portare avanti i nostri bellissimi progetti senza mai perdere l'entusiasmo di chi crede fortemente in quello che fa nonostante le difficoltà siano sempre dietro l'angolo.
Grazie a tutti gli altri collaboratori ed autori di opere pubblicate da Edizioni Arcoiris (Roberto Colonna, Livio Santoro, Maria Rossi, Anna Boccuti, Raffaele Di Somma, Lorenza Di Lella, Piero Armenti e Antonio Pagliula - con loro è iniziato tutto - , Alessandro Badella e tutti coloro i quali non ho citato), grazie agli autori che vedranno le loro opere pubblicate nel 2013, grazie infinite a Norberto Luis Romero, Carlos Damaso Martinez ed Eduardo Ramos-Izquierdo, è stato un onore pubblicare le loro opere in italiano. Grazie ai traduttori per il lavoro svolto. Grazie a tutti coloro che ci inviano il proprio curriculum nella speranza di entrare a far parte della nostra squadra, grazie a chi ci invia il proprio manoscritto sperando che venga pubblicato. Grazie a chi promuove le nostre pubblicazioni o iniziative. Giuseppe Girimonti Greco in primis.
Grazie a tutti coloro che hanno acquistato o letto i nostri libri, grazie ai giornalisti che li hanno sempre recensiti positivamente.
Auguri a tutti


martedì 4 dicembre 2012

Le inquietudini dell'anima - Intervista a Norberto Luis Romero

"Dieci racconti, poco più di cento pagine: una lettura, un sentiero che porta alla scoperta di Norberto Luis Romero e della sua scrittura. Dieci storie che narrano con pennellate veloci l'inquietudine".
E' così che Dajana Morelli, traduttrice e curatrice di "Istantanee d'inquietudine" ci presenta l'essenza ed il filo conduttore degli spiazzanti racconti che compongono questa raccolta e che scavano in profondità, indagano gli uomini e i loro comportamenti, senza giudicare, lasciando il lettore smarrito, senza via d'uscita.

A Norberto va il mio grazie non solo per essere entrato nel gruppo Arcoiris con la sua bontà ed umiltà nonchè con le sue eccellenti qualità letterarie, ma anche e soprattutto per essersi messo a nudo in questa intervista che mi ha rilasciato e grazie alla quale possiamo comprendere meglio quali meccanismi umani rendono la sua anima così inquieta.


In quale momento della tua vita hai iniziato a dedicarti alla scrittura e quando hai capito che scrivere sarebbe diventata la tua professione?

Ho iniziato a scrivere molto presto, per dare voce ad una necessità imperante di dar sfogo ad alcune inquietudini interiori, alcune fantasie in gran parte generate, o meglio stimolate, dalla lettura di alcuni libri di genere fantastico, tutti di autori classici anglosassoni, presenti nella biblioteca dei miei genitori. Avevo circa quattordici anni quando iniziai a scrivere un racconto di tipo folklorico e fantastico, che poi non ho mai finito. E fu a partire da questo primo impulso frustrato che iniziai a scrivere una serie di racconti, in quell’epoca in cui ero influenzato fortemente da Ray Bradbury ed anche da “Le cosmicosmiche” di Calvino. In seguito ci furono Borges, Cortázar, Buzzati ecc., e molti altri, ed ognuno di questi meravigliosi autori aggiungeva nuovi ingredienti ai miei racconti, e nel frattempo si delineava la mia voce. Una volta terminata l’università e a causa del mio lavoro, misi da parte la scrittura, che ripresi quando arrivai in Spagna, ad intermittenza e considerandomi sempre come “uno in più che scrive”, ma non uno scrittore. Fu il mio amico, il grande scrittore riojano-cordobese Daniel Moyano, che conobbi a Madrid, colui che mi fece prendere coscienza della mia condizione di scrittore. Successivamente H. E. Francis, scrittore nordamericano, amico e traduttore di Moyano ad anche mio, confermò il mio essere uno scrittore. A loro due devo tanto, tantissimo.


Dopo tanti anni in Spagna, in cosa ti senti argentino e in cosa ti senti spagnolo?

Innanzitutto devo dire che in realtà non sono in grado di rispondere. A noi argentini viene attribuito, proprio – e sembra essere un luogo comune – una sorta di mancanza d’identità. Io credo che questa specie di mancanza d’identità sia proprio l’identità degli argentini e che in realtà non sia altro che una capacità di adattarsi a qualunque nuova identità senza però abbandonare quella precedente, ed al tempo stesso avere tante identità. Per confondere meglio: diciamo che la pluri-identità è una delle caratteristiche di un argentino, cosa che non dobbiamo confondere con il concetto di personalità multipla tanto di moda. Un argentino si sentirà argentino in Polonia e al Polo Nord, ma questo non gli impedirà di parlar male o rinnegare il suo paese ed inoltre di sentirsi straniero quando si trova lì. Anche il rapporto odio amore è un segno dell’identità in questo caso. Personalmente, con il passare degli anni, mi sento sempre più vicino all’Argentina che alla Spagna, un paese che da alcuni anni a questa parte è diventato indescrivibile, è per disgrazia, non diventa fantastico, anche se si trova ad un passo dal diventare irreale.


L’appartenenza a due mondi contemporaneamente (Argentina e Spagna) in che modo ha influenzato la tua visione della vita e della letteratura?

La dualità di sentimenti, in questo caso, si riversa fortemente nella sfera del linguaggio e della creazione, più che nella vita quotidiana. La mia vita sarebbe più o meno la stessa se vivessi in qualunque altro paese in cui si parla il castigliano, i conflitti con il linguaggio sarebbero gli stessi. Fra il castigliano di Spagna e quello d’Argentina esistono varie differenze lessicali e grammaticali, così come di significato. Il linguaggio che ho imparato fino ai miei 25 anni, nella mia patria, anche se alcuni anni fa, forse quando la Spagna mi abbagliava, avevo la convinzione e commisi l’errore di considerare che il castigliano di Spagna fosse quello corretto, e mi allontanai dalle mie fonti, alle quali oggi faccio ritorno. Nel mio ultimo romanzo “Terra di barbari”, recupero la mia lingua materna, è stata una necessità, e confesso di aver avuto molte difficoltà pratiche poiché vivo fuori dal paese.
Al di là del linguaggio, la mia esperienza di vita profonda appartiene all’Argentina, dove mi sono formato e sono cresciuto, dove ci sono i miei ricordi felici e quelli infelici, pertanto mi risulta impossibile rinunciare al mio passato, alla gente della mia terra e alla mia geografia.


Quanto c’è di Norberto Luis Romero nel personaggio principale di “El lado oculto de la noche” quando - spesso - ripete “sono differente”?

Tutto, il protagonista sono io, non c’è dubbio. Un bambino e adolescente che ha coscienza della realtà che lo circonda e che risulta essere ostile, che invece di giocare, andare a ballare, uccidere le rane o andare in campeggio, preferisce ascoltare musica classica, leggere, dipingere e che inoltre ha una madre che agonizza per molti anni, è fuori dalle orbite ed è solo, nessuno può comprendere il suo mondo e condividerlo, pertanto è unico. Genet diceva qualcosa del genere: “La solitudine morale dell’assassino si unisce alla solitudine dell’artista che non concepisce altra autorità al di fuori di quella di un altro artista”. Sono stato solo per tanti anni ed è stato molto duro. Il personaggio osserva con freddezza quello che accade attorno a lui attraverso queste sfere di vetro con cui vede la verità, una verità che non gli piace ed è solo perché non riesce ad inserirsi in essa, non vuole appartenere alla tribù, una tribù assurda, fatta di riti vuoti, bugie, violenza… e il personaggio apparentemente accetta la realtà con rassegnazione, senza denunciarla, e ciò che fa è trasgredire costantemente, perché è conscio della sua falsità ed ha capacità critica. Il mio primo libro di racconti si chiama “Trasgressioni”, non è un caso.


Qual è il lato oscuro dell’anima umana che più ti affascina e quello che più ti spaventa?

Quello che più mi affascina è la capacità di fare del male, l’egoismo ad oltranza, l’ignoranza e il disprezzo del prossimo perché ci si ritiene superiori. Mi affascina la cattiveria insita nell’uomo, la sua intrinseca natura distruttiva, la sua capacità di produrre dolore, e mi da fastidio che non si voglia accettare e riconoscere l’esistenza di questo lato oscuro, delle passioni umane che possono arrivare ad estremi di violenza e distruzione, e mi dispiace che si nascondano dietro una maschera o neghino con la cultura del politically correct istituzionalizzata.
Ciò che temo di più è il totalitarismo verso il quale ci dirigono molti governi, questo costante addottrinamento ideologico in cui solo i potenti possono permettersi il lusso di godere delle proprie passioni e portarle all’estremo della perversione, il lato oscuro dell’anima, e abbandonarsi a lei fino a raggiungere eventi estremi come l’Olocausto. La doppia moralità mi atterrisce, e purtroppo vedo in che modo guadagna terreno giorno dopo giorno.


In molti dei tuoi racconti vengono narrate storie difficili e dolorose (violenza sessuale in “Il fiore azteco”, un uomo vittima di sua moglie in “Mentre lei dorme”, mostruosi mendicanti di strada in “Diario del Tassidermista”) che possono avvenire nella realtà, ma in essi c’è sempre una componente irreale. Questa è una forma di autoprotezione da ciò che è angusto e doloroso (ciò che è negativo viene messo sullo stesso piano di ciò che è ironico per togliere valore ed importanza al dolore stesso) o è semplicemente un desiderio di affrontare la vita con un sorriso sul volto nonostante tutto?

Credo che la prima opzione sia quella giusta, non sono d’accordo con l’idea di affrontare le avversità della vita, il lato oscuro dei rapporti umani, il dolore, la malattia e la morte, con un sorriso, mi sembra una cosa troppo vicina al concetto cristiano di rassegnazione, al porre l’altra guancia davanti alle disgrazie. Si, credo nell’umorismo e nell’ironia, compresa quella più crudele, come alternativa quando non si può ricorrere alla ribellione o alla violenza per modificare la realtà, o per affrontare l’insalvabile “moira” o la fatalità. E’ la trasgressione, in questo caso attraverso l’ironia, un elemento estraneo alla realtà che penetra in lei come un parassita e ne distorce l’essenza, la rende contraria e la eleva al piano dell’immaginazione, con la quale la rende sopportabile oppure la distrugge.

giovedì 22 novembre 2012

In uscita per Gli Eccentrici 2

Istantanee d'inquietudine, Norbero Luis Romero, a cura di Dajana Morelli

"Norberto Luis Romero è senz'altro uno dei più brillanti autori di racconti brevi che ci abbia dato la lingua spagnola negli ultimi tempi. Erede della tradizione di Cortázar e Borges, ha creato un universo popolato di ossessioni con una densità di stile capace di catturare immediatamente il lettore". (B. Gavira)

 
Norberto Luis Romero, originario di Cordova (Argentina), risiede in Spagna dal 1975. La sua opera letteraria, che comprende racconti e romanzi, ha ricevuto riconoscimenti per lo stile diretto e agile e per le sue sorprendenti tematiche, mai convenzionali e sempre molto coraggiose. Nel 1983 ha pubblicato il primo di libro di racconti, Transgresiones e nel 1995 il premiato Canción de cuna para una mosca doméstica. Nel 1996 esce El momento del unicornio, il suo libro di racconti più noto, ristampato nel 2009. Tra i suoi romanzi ricordiamo Signos de descomposición (1996), La noche del Zeppelín (1999), Islas de sirenas (2002), Ceremonia de máscaras (2003), Bajo el signo de Aries (2005), Emma Roulotte, es usted (2009). Alla narrativa breve appartengono invece The last night of carnival (2003) libro di racconti pubblicato negli Stati Uniti nella traduzione di H.E. Francis, il racconto Capitán Seymour Sea (2007), il volume El hombre en el mirador (2010) e The Arrival of the Autumn in Contanstantinople per i tipi di Green Integer (2010). Di recente uscita è il suo ultimo romanzo Tierra de bárbaros (2011).

 
Cinque dei suoi microracconti sono inseriti in Bagliori estremi. Microfinzioni argentine contemporanee, Edizioni Arcoiris, Salerno 2012.
 


lunedì 19 novembre 2012

In uscita per Gli Eccentrici

Le ossa, Eduardo L. Holmberg, a cura di Loris Tassi

"Le ossa (1896) è probabilmente il primo romanzo poliziesco argentino. Holmberg contamina la letteratura con la frenologia e la psicopatologia, e non esita a trattare temi come il travestitismo, un'assoluta novità per l'epoca. L'importanza attribuita alla logica deduttiva fa di Holmberg un precursore di opere come L'indagine di Saer". (Belén Gache)

"Le ossa è il migliore e più originale tra i romanzi polizieschi di Holmberg". (César Aira)



Incipit
Tornavo da un viaggio lungo e faticoso e nella confusione dei primi momenti, tra gli abbracci della famiglia, le attenzioni riservate al bagaglio e la gioia di ritrovarmi nuovamente a casa, sentii rinascere in me un’allegria che mi era impossibile provare contemplando le pianure, le montagne, i boschi e i fiumi della mia terra, così ricca e bella ma anche, per effetto della sua stessa bellezza, così tirannica e dominatrice, una terra che mi avrebbe trasformato in una specie di vagabondo, in un beduino, se non fosse stato per il desiderio del cuore e per il fascino vertiginoso di una città in cui si respira un’atmosfera intellettuale e imprescindibile.

  

domenica 21 ottobre 2012

Dio non gioca a dadi III



"Dio non gioca a dadi, chi gioca a dadi, a poker e a scala quaranta è il diavolo. Dio non gioca perché è il padrone del casinò".
Fabián Vique, Bagliori estremi. Microfinzioni argentine contemporanee, Edizioni Arcoiris, p.32

mercoledì 3 ottobre 2012

I femminicidi di Ciudad Juárez

“Ciudad Juárez è una città dello stato di Chihuahua, nel nord del Messico. Situata al confine con gli Stati Uniti, forma un unico agglomerato urbano con El Paso, Texas. A unire le due città ci sono dei ponti che attraversano il fiume Rio Grande, confine naturale fra gli Stati Uniti d’America e il Messico. Per la sua posizione geografica Ciudad Juárez ha conosciuto negli ultimi cinquant’anni un’incredibile crescita. Grazie ai piani di sviluppo varati agli inizi degli anni Sessanta del Novecento e all’accordo di libero scambio tra il governo federale messicano, gli Stati Uniti e il Canada, entrato in vigore l1 gennaio 1994 (Nafta North American Free Trade Agreement), molte aziende statunitensi hanno stabilito impianti industriali (maquiladoras) oltre il confine, allettate dalla possibilità che veniva loro offerta di sfruttare la manodopera a basso costo del Messico e di importare nel paese latinoamericano macchinari e materiali praticamente esentasse. Da quel momento i pezzi per l’assemblaggio di frigoriferi, televisori, forni, biciclette, eccetera hanno cominciato a varcare la frontiera per finire tra le mani di messicani (in maggioranza donne) che li lavorano per circa 4 euro al giorno, turni di 45 ore a settimana. I prodotti finiti vengono poi caricati di nuovo sui camion che attraversano la frontiera sulla rotta Sud-Nord per essere poi immessi sui mercati occidentali.
E così Ciudad Juárez è diventata una delle città più popolose del Messico in un tempo record. Ha attirato centinaia di migliaia di persone (in maggioranza donne) dagli Stati più sottosviluppati del Messico mer
idionale e dell’America Centrale che, in attesa di varcare il confine per entrare negli Stati Uniti, trovano impiego presso le maquiladoras e si arrangiano a vivere in baracche (tanto sarà per poco) senza acqua potabile e talvolta senza elettricità per andare a popolare le periferie della città ingrossatesi ormai fino a invadere le zone desertiche da cui è circondata. Ma la frontiera fra il primo e il terzo mondo è sempre più difficile da varcare in direzione Nord, e così accade spesso che queste donne si ritrovino a vivere a Ciudad Juárez a tempo indeterminato, almeno finché non finiscono violentate e uccise in un’area abbandonata di periferia, con i vestiti strappati e le ossa lasciate a marcire sotto il sole. Perché nel periodo 1993-2004 circa 600 donne sono sparite e circa 475 sono state ritrovate morte dopo essere state violentate, la maggior parte era di età compresa fra i quattordici e i venticinque anni. Il 60% delle vittime era impiegato presso una maquiladora, tutte quante appartenevano a famiglie estremamente povere, oppure si trovavano a Ciudad Juárez da sole, senza alcun parente che potesse poi denunciarne la scomparsa.
[…] Ciudad Juárez è anche la sede di uno dei più potenti cartelli della droga dell’America Latina affermatosi a metà degli anni Novanta, e per cui il Nafta è stato sicuramente vantaggioso. I narcos messicani hanno fatto fortuna come intermediari grazie alla posizione geografica del loro paese. Trasportano la cocaina e l’eroina dalla Colombia, dalla Bolivia e dal Perù verso il più grande mercato degli stupefacenti del mondo: gli Stati Uniti d’America. La presenza dei narcotrafficanti fa di Ciudad Juárez uno dei territori più pericolosi sulla faccia della Terra, la città che dal 2009 si aggiudica ogni anno il triste primato del più alto tasso di omicidi al mondo. E nella città di frontiera, nel periodo 1995-2000, il 44% delle vittime di omicidi volontari era di sesso femminile.
Luogo simbolo delle relazioni Nord-Sud a livello planetario nonché frontiera per eccellenza, era prevedibile che Ciudad Juárez sarebbe entrata di prepotenza nelle opere di importanti scrittori e giornalisti latinoamericani ed europei. Il mistero che questi delitti sembrano celare può condurre uno scrittore sulle più disparate strade dell’immaginazione. Il tema dei femminicidi ha per esempio ispirato lo statunitense Clanash Farjeon, il quale ha scritto un libro che si intitola I vampiri di Ciudad Juárez e in cui si immagina che dietro i delitti vi siano le azioni di una setta di narco-vampiri.
Ma chi per primo ha scritto un’opera letteraria sull’argomento contribuendo a portare all’attenzione dell’umanità il caso dei femminicidi di Juárez è stato Sergio González Rodríguez. Il suo Ossa nel deserto si inserisce nella tradizione di letteratura dal vero (o non-fiction) che nella storia dell’America Latina ha conosciuto uno sviluppo particolarmente ricco. Poco ha da invidiare questo giornalista messicano a maestri del genere letterario come Rodolfo Walsh, Horacio Verbitsky e Ryszard Kapuściński. Ossa nel deserto è un altro di quei libri che abolisce i confini tra narrativa e cronaca giornalistica, e che addirittura rivendica di appartenere alla prima categoria pur senza rinunciare alla chiarezza offerta dalla seconda. «In Ossa nel deserto l’elemento narrativo è fondamentale» scrive González Rodríguez. È così che testimonianze e copie di documenti ufficiali si intrecciano a pagine di saggistica e a narrazioni di storie personali. Per formare un libro coeso e coerente che senza intoppi procede dalla prima all’ultima pagina narrando un mondo di capri espiatori, testimonianze fabbricate ad arte, insabbiamenti, depistaggi, occultamenti di prove e un numero impressionante di omicidi irrisolti. In Messico la percentuale di delitti impuniti si avvicina al 100%, e questo dato non può essere considerato come semplice frutto dell’inettitudine o della pigrizia degli inquirenti. Il sospetto che sorge, e nel libro Ossa nel deserto la questione è analizzata con estrema scrupolosità, è che molti funzionari pubblici e poliziotti siano sul libro paga dei narcotrafficanti i quali fanno quindi pressioni per evitare che le forze dell’ordine garantiscano la sicurezza della comunità in modo da poter gestire indisturbati i loro affari. Dai libri La città che uccide le donne e L’inferno di Ciudad Juárez nonché dallo stesso Ossa nel deserto si evince che ci sono quattro o cinque individui fortemente sospetti e sui quali negli anni si è fatto di tutto per evitare di indagare. Stiamo parlando di funzionari pubblici, due comandanti di polizia più un altro paio di persone legate al traffico di droga e di gioielli. L’attenzione dei media scatenatasi intorno a Ciudad Juárez all’inizio degli anni Duemila non è stata di sicuro gradita dai locali signori della droga e alcuni avvenimenti fanno pensare che i boss ci tengano a far capire chiaramente ai loro tirapiedi che non devono lasciarsi coinvolgere in questi delitti o che devono essere più discreti. Se a questo clima favorevole all’impunità aggiungiamo la profonda misoginia della società messicana (la donna che lavora, non essendo dipendente dal suo uomo, è considerata insolente) ecco che capiamo perché sia così facile morire a Ciudad Juárez. La misoginia in Messico è un tema di scottante attualità, e una caratteristica della società che purtroppo ancora molti fanno finta di non vedere. Sergio González Rodríguez stesso sottolinea che da parte delle autorità c’è sempre stata la volontà di nascondere il carattere sistemico di questi delitti. Le ricerche di Marcela Lagarde, professoressa di antropologia sociale e sociologia alla Universidad Nacional Autónoma de México, ci permettono oggi di essere più precisi anche nell’uso dei termini adatti a definire una barbarie come quella di Ciudad Juárez. A lei si deve la teorizzazione del termine «femminicidio» in quanto riformulazione della parola «femmicidio» su cui la studiosa sudafricana Diana Russel aveva concentrato i suoi studi di genere a metà degli anni Settanta. Una delle migliori pubblicazioni uscite in Italia sui femminicidi di Ciudad Juárez è il libro edito da Franco Angeli nel 2010 dal titolo Ciudad Juárez, la violenza sulle donne in America Latina, l’impunità, la resistenza delle madri.
Molte piste diverse nel corso degli anni hanno suscitato l’interesse dei giornalisti (le autorità non hanno fatto nient’altro che accusare e arrestare persone risultate poi innocenti), dall’industria degli snuff movies al mercato di organi, dai rituali satanici alle orge nelle ville dei giovani rampolli delle famiglie più influenti del Messico. Peccato che nessuna di queste piste sia stata mai esplorata con scrupolosità. In realtà, come spiega González Rodríguez, pare proprio che negli anni tutti i filoni di indagine siano stati abbandonati non appena si cominciava a sentire puzza di colpevoli. E così i procuratori venivano trasferiti, i poliziotti si vedevano gonfiare ancora di più le buste paga per far finta di non vedere, gli avvocati difensori dei falsi colpevoli venivano minacciati di morte e in alcuni casi uccisi, i giornalisti seri venivano aggrediti, e intanto, tra le promesse disattese di ben tre presidenti della Repubblica, quasi mille donne venivano trovate morte o fatte sparire.
L’esempio di Ossa nel deserto si distingue da tutti gli altri libri scritti sul tema dei femminicidi di Juárez perché capiamo subito che l’autore non va a caccia di colpevoli, ma di cause. Sergio González Rodríguez dimostra che per essere incisivi non c’è bisogno di alzare la voce, non c’è bisogno di additare qualche personaggio più o meno in vista della società di Ciudad Juárez solo per fare scalpore o, peggio ancora, per convogliare gli odi della gente per bene contro il mostro del momento, quello che conta (e lo spazio di un libro offre di sicuro maggiori possibilità di approfondimento rispetto alle pagine di un giornale) è capire cosa c’è dietro a questi omicidi. Quello di Ossa nel deserto è quasi un sussurro, un tarlo che si insinua nella mente del lettore. «Se il narcotraffico venisse debellato, l’economia degli Stati Uniti subirebbe perdite comprese tra il 19 e il 22%, mentre quella messicana vedrebbe un crollo del 63%». Se proprio vogliamo dare la colpa di tutto ai narcotrafficanti allora dobbiamo anche ammettere che essi, con le loro sterminate riserve di liquidità, sono necessari alla sopravvivenza delle nostre economie neoliberali.
Per la cronaca: nessuna delle donne assassinate a Juárez è stata mai accusata di avere alcun legame con i cartelli della droga, di essere coinvolta in attività illecite di altro tipo e questo, in un contesto dove sulle vittime è stato gettato tanto fango, vale bene una certezza. Il merito di un libro come Ossa nel deserto è innanzi tutto quello di riportare su un piano più umanamente comprensibile la tragedia di questi femminicidi, di farci conoscere le vittime attraverso le parole dei familiari rimasti a brancolare nel buio; con le autorità che si preoccupano solo di confondere le acque, l’attesa e l’ansia dopo una scomparsa si fanno sempre più pesanti da sopportare e col passare dei giorni l’unica speranza che resta è di ritrovare almeno un mucchio d’ossa per avere una tomba su cui piangere.

«Sa cosa voglio che faccia? Disse la deputata. Voglio che scriva su questa storia, che continui a scrivere su questa storia. Ho letto i suoi articoli. Sono buoni ma spesso spara a vuoto. Io voglio che spari a colpo sicuro, sulla carne umana, sulla carne impune e non su ombre. Voglio che vada a Santa Teresa e la fiuti bene. Voglio che la morda». La persona a cui si rivolge la deputata è l’equivalente letterario di Sergio González Rodríguez che Roberto Bolaño volle incontrare nel periodo in cui stava scrivendo 2666. Alcuni amici comuni ai due scrittori li misero in contatto, anche se in realtà le pressioni più forti furono fatte dallo stesso Bolaño che aveva preso ad appassionarsi sempre di più alla storia delle donne morte a Ciudad Juárez. I due si scrivevano spesso, e il cileno non nasconde la sua ammirazione per il lavoro del giornalista messicano che lo aiutò anche con suggerimenti di carattere tecnico a stendere parte della sua mastodontica opera-mondo pubblicata postuma. 2666 è un libro diviso in cinque parti (Bolaño stesso specificò che l’ordine in cui si possono leggere è del tutto libero) e una delle più corpose si intitola La parte dei delitti. Si tratta di un blocco di trecento pagine in cui vengono narrati i ritrovamenti di centinaia di corpi di donne violentate e mutilate. La città dove avvengono questi ritrovamenti si chiama Santa Teresa ed è il corrispondente letterario di Ciudad Juárez.
Santa Teresa è il punto verso cui convergono (o da cui partono?) tutti gli innumerevoli rivoli narrativi che scorrono tra le mille pagine di 2666. Bolaño guarda quelle cose e quelle persone che nessuno di noi vorrebbe vedere, e ci restituisce i ritratti di sconfitti (vittime del successo di altri) che pure non cedono mai all’autocommiserazione, ma che portano con orgoglio la loro etichetta di outsider stampata sulla fronte.
2666 è il libro del Male della nostra epoca. Le vicende narrate, infatti, attraversano tutto il Novecento, dal primo dopoguerra alla fine degli anni Novanta. Si parte dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’Olocausto per finire con i femminicidi di Ciudad Juárez.
[…] Indagare sui femminicidi di Ciudad Juárez per uno scrittore significa calarsi nell’abisso per dare al lettore la possibilità di guardarlo con i suoi occhi. Sergio González Rodríguez e Roberto Bolaño hanno scelto di mettere al centro delle loro opere le vittime, gli esclusi, quelli che hanno creduto in un sogno di benessere rivelatosi poi irraggiungibile per loro, i milioni di persone sulle cui spalle è costruito il modello di sviluppo e la ricchezza dei paesi occidentali. I cadaveri di donne lasciati a marcire nel deserto del Sonora rappresentano solo alcuni dei danni collaterali del nostro stile di vita, lo sporco da nascondere sotto il tappeto, i mostri da ricacciare nell’abisso”.

Tratto da “I femminicidi di Ciudad Juárez in Ossa nel deserto e 2666 di Alessio Mirarchi, America Latina e Occidente. Tra filosofia e letteratura, pp. 247-266.
Il libro può essere acquistato su www.arcoirismultimedia.it