mercoledì 26 settembre 2012

"Bagliori estremi. Microfinzioni argentine contemporanee"

Certi generi letterari sono come le piante: endemici di certe regioni, affondano le loro radici in alcune culture e lì prosperano rigogliosi, altrove invece non riescono ad attecchire. Sembra essere questo il caso della microfinzione, genere tanto diffuso in area ispanoamericana e ancora così poco familiare al curioso lettore italiano. [...] Questi testi ibridi nell’arco di poche pagine o poche righe, mescolano prosa poetica, racconto, poesia, aforismi, sentenze, a volte motti di spirito: “piccole feroci creature”, le ha chiamate l’argentina Ana María Shua, restie a ogni ovvia catalogazione, testi impertinenti che sfuggono all’incasellamento e riprendono così la propensione alle forme inclassificabili (almeno secondo la ripartizione canonica dei generi) di cui abbonda la tradizione letteraria ispanoamericana.  [...] Borges è soltanto uno degli assidui frequentatori del genere breve in area rioplatense. Assieme a lui, anche Enrique Anderson Imbert (1910-2000), Julio Cortázar (1914-1984), Marco Denevi (1922-1998) – per limitarci ai classici –, dalla seconda metà del Novecento in poi iniziano quel gioco con il testo e i suoi limiti che, accentuandosi negli anni successivi, porterà all’estremo la tendenza alla concentrazione già costitutiva del racconto. I decenni a cavallo tra il secolo XX e XXI vedono infatti una ricca fioritura di testi brevi che sfidano le norme dei generi letterari codificati, accompagnata da una crescente attenzione verso questi “microracconti”, “microfinzioni” o “miniracconti”, testi “iperbrevi”, “racconti pigmei”, racconti “bonsai”, “racconti da palpebra”, “sudden fictions”, che si vanno poco a poco affermando come sotto-genere indipendente. Si tratta di un fermento sotterraneo ma costante, che si è tradotto negli ultimi tempi nella pubblicazione di numerose antologie (come quelle curate da Sandra Bianchi, Raúl Brasca e Luis Chitarroni, Laura Pollastri), nella nascita di case editrici specializzate e nel proliferare di riflessioni teoriche e congressi. La microfinzione costituisce dunque uno dei casi in cui il rapporto di imitazione o influenza culturale esercitato dall’Europa sull’America Latina sin dalle origini della sua letteratura, viene radicalmente negato e in America si assiste al prosperare di forme letterarie originali, autoctone e autonome che si proiettano su altre aree culturali al di là del subcontinente latinoamericano. All’origine di questa antologia vi è l’intenzione di offrire al lettore italiano un assaggio degli ultimi esiti della microfinzione argentina. A tale esigenza rispondono pure i criteri di selezione – arbitraria come ogni selezione – degli autori: al fianco di nomi che vantano una traiettoria letteraria più lunga e articolata e il cui prestigio è ormai consolidato in ambito internazionale, tanto da essere tradotti e pubblicati anche in Italia, figurano autori più giovani, sia anagraficamente che professionalmente, spesso sconosciuti al lettore italiano. Si è inoltre prestata attenzione anche alla provenienza degli scrittori antologizzati, di modo che la dicitura “microfinzioni argentine” significasse davvero “delle diverse provincie che compongono la Repubblica Argentina” e non solo “della città di Buenos Aires”, come in genere succede. Per quanto riguarda l’organizzazione dei testi, si è scelto di non ordinarli secondo lo sviluppo cronologico, né ci si è attenuti a un solo ambito tematico. Ci è sembrato più utile proporre un percorso di lettura suddiviso in sezioni omogenee dal punto di vista tematico, per restituire al lettore un’idea complessiva delle diverse possibilità esplorate dal genere. Questa mescolanza di voci, origini, storie, rispecchia la vivacità e la varietà della microfinzione argentina contemporanea. [...] Tensione e intensità sono il risultato di quella condensazione narrativa estrema che esibiscono le microfinzioni raccolte in questa antologia, contenute nello spazio di una pagina o addirittura giocate nell’incisività fulminea di una riga, come nel microtesto di Fabián Vique: «Dio non gioca a dadi. Gioca a nascondino». Viene da chiedersi se – e come – un testo così breve riesca a mantenere il proprio carattere narrativo, ovvero la capacità di raccontare (in questo caso, evocare o alludere) una storia, e in che modo la brevità determini i meccanismi della narrazione senza intaccarli. Difatti, la speciale condensazione delle microfinzioni non è un tratto causato dalla brevità intesa come ridotta dimensione dei testi, quanto piuttosto il felice risultato delle strategie utilizzate, che imprimono una sorprendente accelerazione al racconto attraverso inaspettate scorciatoie.
[...] Anche per ragioni di concisione, allora, le microfinzioni dialogano frequentemente con altri scritti e discorsi canonici e ricorrono alla citazione e alla parodia, cioè all’intertestualità, per intessere il proprio discorso e costruire il suo significato. In questo volume, i testi riuniti nella sezione “Alla ricerca delle sorgenti” si intersecano, a più livelli, con una molteplicità di altri racconti e discorsi sulla genesi del mondo; allo stesso modo, le microfinzioni di “Storia, storie” offrono varianti ironiche di diversi momenti della storia ufficiale. Ma è nella sezione “Versioni” dove si fa più esplicita la tendenza intertestuale del genere microfinzione. Qui, il lettore di buona memoria non tarderà a individuare in controluce gli antecedenti letterari, che si caricano di sensi inediti attraverso la riscrittura. L’accostamento ad altre opere e il loro riconoscimento fungono dunque da scintilla che accende il significato, non espresso apertamente ma affidato alla cooperazione di chi legge. La complicità tra l’autore e l’intrepido lettore, fondata sulla condivisione di un medesimo repertorio letterario, si rivela perciò un elemento indispensabile alla comprensione del testo e di conseguenza al suo godimento. L’accento ironico del finale non è esclusivo della microfinzione che abbiamo appena ricordato ma, al contrario, è un’intonazione ricorrente della voce narrante attraverso la quale si esprime l’intenzione ludica e al tempo stesso critica che anima gran parte del genere. L’ironia, per l’appunto, ora lieve, ora corrosiva, non afferma verità ma attenta a quelle esistenti, facendo vacillare grazie al dubbio nozioni, credenze, convenzioni acquisite. L’immaginazione paradossale e iperbolica che sovente l’accompagna non fa che amplificarne gli effetti, come vediamo in “One way”, di David Lagmanovich, in cui il conformismo della società statunitense è messo alla berlina tramite l’invenzione di una città dove qualsiasi forma di circolazione – stradale e non – avviene in una sola direzione. [...] Non semplicemente testi brevi, dunque, e quindi statici nello spazio bianco della pagina, ma testi vivi, dinamici come lo è l’atto della lettura, rapidi come il precipitare della finzione verso il finale che costruisce il significato e lo rivela al lettore il più delle volte come uno squarcio nel cielo, un lampo istantaneo oppure un bagliore estremo che continua a irradiarsi oltre gli orizzonti del testo.
 

Tratto da All'intrepido lettore di Anna Boccuti, curatrice dell'opera.
Questo libro è il terzo volume della Collana Gli eccentrici diretta dal prof. Loris Tassi, Università di Napoli l'Orientale.
 
Fra gli autori delle microfinzioni Rosalba Campra, Norberto Luis Romero, Fabián Vique, Ana María Shua, Carlos Culleré, Mario Goloboff. 
 
Il libro può essere acquistato su

lunedì 24 settembre 2012

"Nella zona proibita" di Eduardo Ramos-Izquierdo

Non avete ancora incontrato il vostro doppio? Forse non vi capiterà mai, ma, statene certi, da qualche parte esiste, forse vi apparirà nel momento più inatteso o forse rimarrà celato negli ormai troppo vasti censimenti universali, ma non c’è niente da fare: egli esiste, e naturalmente anche noi non siamo altro che il doppio di qualcun altro. Se comunque voleste prepararvi a tale fatidico incontro, il romanzo breve che avete in mano potrebbe servirvi come utile prontuario: alla fine avvertirete una leggera inquietudine, ma senza dubbio vi troverete più pronti nel momento in cui vi apparisse davanti il sosia che inopinatamente è uscito dallo specchio. Nella zona proibita di Eduardo Ramos-Izquierdo ruota infatti proprio tutto intorno a un tale dilemma, all’esistenza possibile di qualcuno che abbia la nostra stessa apparenza, senza condividere con noi alcuna comune appartenenza, di famiglia, di luogo o di qualsiasi umana coincidenza. Un sosia dunque, un “doppio”. Il nostro autore non affida però lo svolgimento del tema ai turbamenti quotidiani del neo-fantastico, preferisce qui affidarsi alla razionalità, forse anche troppo ordinaria, di un’indagine da libro giallo, con un investigatore privato che ricorda molti suoi colleghi di carta, in una Parigi ricostruita con un minuzioso affetto entusiasta. Un investigatore sulle tracce di un doppio, o forse di molti doppi, che nel frattempo si innamora, ricambiato, di Agathe, donna che viene dal passato e che lo accompagnerà oltre la fine del racconto. Tanti colori allora si intrecciano: il grigio del fantastico contemporaneo, il giallo del poliziesco, il rosa delle storie d’amore, con in più un’ironia che qua e là si affaccia, nemmeno troppo celata. Nelle pagine di Nella zona proibita si muovono non solo i quattro personaggi principali, simmetricamente divisi in due coppie (Molina e Tiphanie; l’investigatore Lino e Agathe), ma una miriade di personaggi secondari, tutti descritti con un’economia di mezzi che nulla toglie alla precisione e inoltre tutti assolutamente memorabili. La questione più interessante è che il mondo affollato in cui si muovono i nostri eroi è proprio quello della quotidianità urbana, con i suoi curiosi abitanti, ognuno a suo modo unico e irripetibile, almeno in apparenza. In questa folla di individui si nasconde infatti una possibilità, introdotta bruscamente dal messicano Molina, il cliente del nostro investigatore. Non solo c’è un nostro doppio da qualche parte nel mondo, ma ne esistono addirittura più di uno, forse sei, o sette, o anche di più, e i loro destini sono inestricabilmente collegati, di modo che ciò che accade a uno si ripercuote sugli altri, fino a prevedere una serie di ripetizioni simmetriche di destini, in cui tutti i protagonisti vedono riprodursi i propri gesti, come in un film in cui la stessa scena si replicasse in scenari differenti: un’affermazione che non ha alcun fondamento, come conclude il cartesiano e tenacemente realista investigatore, trascinato molto suo malgrado (solo il potere del denaro lo convince) in una ricerca per lui senza senso.
[...] Chi avrà seguito questi miei ragionamenti fin qui avrà forse notato l’apparire a un certo punto del termine “gioco”, che si ritrova anche nella controcopertina dell’edizione in spagnolo ed è questa una parola che potrà ulteriormente avvicinare il lettore alle ragioni della qualità delle pagine di questo breve romanzo. Molti sono infatti i versanti ludici della scrittura di RIZQ. Innanzitutto c’è il gioco della letteratura, gli innumerevoli rimandi libreschi, l’ammiccamento a generi differenti, che provocano il piacere di far reagire tra loro elementi disparati, per “sorprendersi” (e sorprenderci), come l’investigatore di fronte ai due doppi che gli si presentano in una sola giornata: «due doppi in un pomeriggio aveva dell’incredibile», e per riprendersi dallo spavento manda giù due bicchierini di pastis. La sua sorpresa è allora anche quella del narratore, e del lettore, di fronte al piacere che riservano le molteplici possibilità degli incroci letterari, allo stupore che il pastiche, nella sua accezione quasi culinaria, può provocare, come una delle ricette messicane in cui dolce e salato si amalgamano con risultati spesso imprevedibili. Non manca però anche il gioco matematico, cui accennavo prima: il gioco delle combinazioni numeriche, delle simmetrie possibili e delle corrispondenze numerologiche appare affascinante, anche solo pensando alle riflessioni del narratore nell’ultimo capitolo, ma queste sembrano voler essere quasi anche una sfida al lettore a ritrovarne altre. Si tratterà allora di porsi di fronte al fantastico come di fronte a un gioco: non è un evento da osservare con atteggiamento di ammirazione, ma un mistero da decifrare, che risponde a regole incomprensibili ma ferree, un fantastico “inevitabile”, come pensava Caillois. Il gioco matematico sembra poi rimandare a un ulteriore gioco metafisico, che apre la strada proprio a quella “zona proibita” di cui parla il titolo, una zona, come intuisce Agathe, «nella quale i nostri destini correrebbero il rischio di incrociarsi in una configurazione ossessiva e pericolosa». Dato che se Molina scopre di aver molteplici doppi, anche a noi potrebbe capitare, e di incaricare qualcuno di decifrarne gli itinerari segreti. Questo intersecarsi di giochi possibili viene condotto però con una leggerezza di scrittura e una felicità del narrare, che sono le vere qualità del libro di RIZQ, le qualità che ci permettono di chiudere alla fine il libro con la precisa sensazione di aver davvero “letto un bel libro”.

Tratto da Istruzioni per uscire dalla zona proibita di Stefano Tedeschi.
Questo libro è il secondo volume della Collana Gli eccentrici diretta dal prof. Loris Tassi, Università di Napoli l'Orientale.

Il libro può essere acquistato su

mercoledì 12 settembre 2012

"Il labirinto dell'identità" visto da Maria Cecilia Graña

"Il labirinto dell'identità in El cantor de tango di Tomás Eloy Martínez" introdotto dalla Prof.ssa dell'Università di Verona Maria Cecilia Graña.

"Oggi, città ibrida e frammentata, Buenos Aires dentro la letteratura è un tema la cui forma si muove tra due ambiti, il reale e referenziale e il mitico o fittizio, e dove il passato, in particolare verso la metà del Novecento, inizia a proiettarsi come un’ombra nel presente. Tutto questo entra in gioco nell’immagine cittadina di El cantor de tango di Tomás Eloy Martínez, perché nella Buenos Aires del 2001 assediata dalla miseria, la città vista da occhi stranieri – diversi ma somiglianti a quelli che arrivavano da diversi paesi europei alla fine dell’Ottocento – diventa luogo di una ricerca costante, infinita, attraversata da dimensioni finzionali e artistiche che gradualmente la dissolvono – e disgregano l’identità di chi la percorre – in un ambito irreale.
Andrea Masotti, l’autore di questo saggio, affronta un tema, quello della città, che è stato molto trattato dalla critica letteraria della seconda metà del Novecento, ma ha scelto di farlo in un romanzo postmoderno che induce il lettore a “entrare” nella Buenos Aires del 2001 passando da altri testi o anche da film, come succede a Bruno Cadogan, uno statunitense che arriva a Buenos Aires credendo di conoscerla attraverso le sue letture. Il risultato sarà per lui devastante perché la metropoli diventa ai suoi occhi una sorta di palinsesto il cui senso appare bloccato dall’accumulo di significati fittizi (artistici) e reali che, come accade a Parque Chas – l’unico quartiere a non essere adeguato alla norma della griglia –, spingono il narratore in una sorta di pazzia. L’unica ancora di salvezza che trova sarà riuscire a dipanare la matassa che ha costituito il percorso delle performance, apparentemente casuali e a sorpresa, del cantor.
Buenos Aires diviene allora labirinto, uno strano e inaspettato labirinto che Andrea Masotti riesce a spiegare con validi strumenti metodologici e una buona dose di creatività. Masotti, infatti, crede che il protagonista biforcandosi in due traiettorie – una alla ricerca di un aleph suppostamente reale, e un’altra che insegue le orme di quella del cantor che lo porta da un itinerario turistico (la peregrinación de las milongas) a uno politico – compia un “percorso della conoscenza”. Non è strano che Cadogan si trovi in tante circostanze “fuori luogo” a Buenos Aires essendo uno straniero. E non è strano che si trovi perso nella città (anche se alcune narrazioni interne alla vicenda principale del libro rendono ancora più paradigmatica questa esperienza, com’è il caso della turista danese Grete Amundsen), perché le aspettative del suo corpo non trovano delle affinità o delle familiarità con le presenze fisiche circostanti dell’urbe porteña; per quanto, com’è stato detto, «gran parte dei funzionamenti delle nostre società ‘avanzate’ si basano su una diffusa indifferenza al ‘dove’».
Masotti, gradualmente e a partire dell’epigrafe di Walter Benjamin in apertura del romanzo, va sviluppando la sua analisi inseguendo una serie di relazioni. La prima evidenzia le transizioni tra realtà e finzione decisamente postmoderne per arrivare ad analizzare, in seguito, la fusione tra il mondo reale e fittizio nella frustrata ricerca dell’aleph, il che gli permette di concludere che il libro costruisce «un’analogia potente tra Buenos Aires e la letteratura».
L’importanza del passato e della memoria è un altro aspetto che Masotti analizza a proposito del concetto d’identità sia del protagonista, Cadogan, che del suo antagonista in absentiam, Julio Martel il quale canta inoltre per recuperare storie, posti e persone passate. Una relazione che l’autore del romanzo, Tomás Eloy Martínez, riallaccia a tutti gli argentini, incapaci «di sentire il presente». Eppure ciò che risalta con maggior vigore del saggio di Masotti è il legame evidente della città con il suo passato, perché l’intenzione del romanzo è risvegliarlo e interpellarlo, nonostante la Storia abbia un’incontrovertibile declinazione verso il fittizio. Per terminare, Masotti collega il nome alla città e, supportato dalle letture di Benjamin, trascina il nesso dalla concretezza verso la mutevolezza, perché in quella sorta di maelström che è Parque Chas, tutti i nomi assumono la funzione d’indizi ipertestuali.
Cercando di imitare l’acqua che riesce a orientarsi in tutti i meandri, l’autore di questo saggio va analizzando le diverse forme di labirinto che appaiono nel romanzo da quelli letterari che richiamano nuovamente la figura di Borges, a quelli reali nella città come Parque Chas; o quelli cui la forma a reticolo della metropoli, sempre uguale, dà origine; o altri che nascono dalla contrapposizione di luoghi del passato con gli stessi nel presente per approdare alla trasposizione dell’idea di labirinto su un altro piano, perché uscire dal dedalo diviene “una risposta che ci parla di noi stessi e del mondo». In questo senso, la voce di Martel è un aiuto per il narratore e per il lettore, serve da guida per affrontare il mondo dove ci sentiamo disorientati: recuperare con la memoria ciò che ci ostiniamo a scordare perché insopportabile o sgradevole o ostico alla conoscenza è una forma di salvezza. Solo così potremo abitare la terra essendo pienamente noi stessi (e questo si collega con il narratore che vede nel comportamento inaspettato dei porteños nel dicembre del 2001 qualcosa di labirintico perché non riesce a percepire la Storia, una sensazione di disorientamento che poi trasferisce all’“essenza” degli argentini e al ruolo che giocano in questo disorientamento lo spagnolo locale e il lunfardo). Tuttavia il romanzo ci dice che quel recupero deve avvenire mosso dal caso che, come un lampo, ci fa sentire che la vita vale la pena e, in seguito, ci farà ascoltare i tuoni di questo risveglio.
Allo stesso tempo, alla fine del libro si arriva a una chiusa inaspettata perché il lettore, nel sapere che Cadogan è lo scrittore di El cantor de tango, lo vede come il costruttore dell’ultimo labirinto, quello che comprende tutti gli altri. A conti fatti, conclude Masotti, il lettore si trova davanti al paradosso che afferma che se scrivere serve a sconfiggere il labirinto, serve anche per ricrearne un altro".


Il libro può essere acquistato al link: