sabato 31 dicembre 2011

Tirando le somme...

Siamo giunti alla fine di quest'anno, ed è quasi un imperativo morale il dover fare un resoconto di quello che in negativo e in positivo ha caratterizzato questo 2011 che se ne va.
Non è stato un anno facile, le arrabbiature, le delusioni, i problemi di vario tipo sono stati tanti. Le soddisfazioni non sono mancate e devo ringraziare tante persone che hanno reso possibili mete e traguardi raggiunti, ed in tal senso il primo nome che mi viene alla mente è quello di Loris Tassi, perchè senza di lui, la sua amicizia e il suo entusiasmo non avrei conosciuto persone e parole che oggi sono accostate al marchio Edizioni Arcoiris. Ringrazio Maria Rossi per avermi permesso di pubblicare un libro su una tematica che per motivi personali mi tocca profondamente. Grazie a tutti coloro che hanno collaborato con me e con la Arcoiris, grazie agli autori e ai traduttori, grazie ai recensori, grazie a coloro che mi hanno sottoposto i loro scritti sperando di vedere le proprie opere pubblicate. Grazie ai clienti per i quali abbiamo lavorato e sudato e che poi non ci hanno pagato, grazie ai clienti che tornano da noi perchè amano la nostra qualità e professionalità. Grazie ai miei genitori, senza i quali non sarebbe mai stato possibile nulla di tutto ciò che ho fatto nella mia vita, grazie a mio fratello perchè è un fratello da 110 e lode, grazie a Carlos che resta al mio fianco amorevolmente nonostante io sia come sono. Grazie alle persone che mi hanno fatto del male, magari senza volerlo, ma hanno comunque segnato la mia vita. Grazie a te nonna, perchè sei sempre e perennemente con me. Grazie alle mie due cagnette perchè mi regalano amore incondizionatamente. Il grazie finale va a me stessa, perchè, concedetemelo, sono una persona meravigliosa e merito tutte le cose migliori al mondo.
E come ogni anno tutti ripetono a tutti: felice anno nuovo e che il 2012 sia un anno sereno, con salute, soldi per tutti, pace interiore, tanto lavoro, infinito amore e nuove parole da leggere...

venerdì 23 dicembre 2011

"La piena" di Carlos Dámaso Martínez

“Ancora una volta arrivavo a godere di un momento – come spiegarlo –, di una situazione sorprendente, quasi inattesa, ma che in qualche modo esisteva in me come un’impronta diffusa, come una bruma a lungo desiderata che, un po’ come l’oscillazione del tergicristallo, andava aprendosi a ondate su un sentiero che non aveva ancora un punto d’arrivo o una destinazione ben chiari”.

Con immenso orgoglio presentiamo “La piena” di Carlos Dámaso Martínez (titolo originale La creciente), primo volume della Collana Gli eccentrici diretta dal prof. Loris Tassi (docente di letterature ispanoamericane all’Università Orientale di Napoli), tradotta dallo spagnolo da Francesco Fava e Giulia Failla, con introduzione della prof.ssa María Cecilia Graña, docente di letterature ispanoamericane presso l’Università di Verona. La traduzione di quest’opera è stata resa possibile dal contributo del Programa Sur, indetto dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Argentina e che mira a diffondere la letteratura argentina in tutto il mondo.

Riportiamo di seguito alcuni passi dell’introduzione della prof.ssa María Cecilia Graña: “I racconti e i romanzi di Carlos Dámaso Martínez (Córdoba, Argentina) si muovono tra generi diversi e creano nella loro prassi narrativa la propria teoria. Dámaso Martínez costruisce un tessuto discorsivo originale che di solito si apre o viene innescato da qualche stimolo della realtà, si mescola con questioni autobiografiche, fa slittare i confini tra i generi e si lascia condurre o si distanzia da un insieme di letture legate all’argomento portante.
La piena è costituito da quattro racconti (“Come una visione”; “Il resoconto impossibile”; “Incontri velati” e “I giorni dell’Eden”) e una nouvelle (“La piena”) che apre il volume. La raccolta è di particolare interesse per il lettore italiano in quanto in alcuni racconti viene mostrato uno squarcio paesaggistico, sociale e linguistico della provincia argentina, altrimenti poco rappresentata nelle narrazioni tradotte in Italia. Inoltre la serie di testi, dalla struttura molto accurata, offre una modulazione peculiare del genere fantastico (genere del quale Carlos Dámaso Martínez si è occupato anche come critico), al quale le epigrafi fanno riferimento.
Di solito, la spazialità delle narrazioni si riferisce a Buenos Aires e Córdoba. Tra le due città appare una dialettica evidente in “La piena”, perché il narratore protagonista va e viene dai due luoghi; e, anche se in “Come una visione” lo spazio non è particolarmente identificato (sebbene ci siano indizi per dire che è Buenos Aires, perché si parla della «strada più lunga del mondo», cioè la Avenida Rivadavia), pure in esso si trova un condor che è stato portato da Córdoba. Invece in “Incontri velati” tutto avviene a Buenos Aires, e lo dimostrano i riferimenti concreti a quella città: la Plaza de Mayo, il Bar Británico, il Parque Lezama, la strada Necochea, l’Hospital Argerich. Ne “I giorni dell’Eden” siamo nelle sierras di Córdoba, spazio segnalato, nel racconto, da due toponimi: Cruz del Eje e La Falda.
La spazialità segna, come è stato detto, la curata composizione del volume La piena: «La lettura mette in evidenza un itinerario interno significativamente chiastico: il primo racconto si svolge nelle sierras cordobesi così come l’ultimo; il secondo e il penultimo sono ambientati a Buenos Aires e il terzo racconto, che occupa il centro del libro, sospende i riferimenti spaziali e mostra una zona geograficamente indefinita...».
È noto che la letteratura fantastica ritaglia la realtà che rappresenta a partire dal nostro mondo; ma quell’immagine crea uno scarto rispetto al reale così come lo conosciamo, scarto che il lettore avverte anche grazie allo sguardo di stupore, sorpresa o terrore dei personaggi o del narratore del testo. E quei testimoni di qualcosa che esula dal loro (e dal nostro) paradigma di realtà rimangono spaesati e afasici, molte volte incapaci di utilizzare l’unico strumento che potrebbe spiegare ciò che è indicibile. Ma il racconto fantastico è appunto una narrazione raccontata da chi ha assistito a qualcosa di strano, di bizzarro, di meraviglioso o di così impossibile che non riesce a farlo entrare in categorie conosciute.
All’atmosfera fantastica contribuisce nei racconti l’attrazione erotica esercitata dai personaggi femminili sui maschili, una sorta di incantamento ipnotico. Così l’erotismo si lega a una storia di iniziazione in un albergo elegante, che con il passare del tempo è diventato l’ombra di ciò che era nella Belle époque, mentre i protagonisti di quel ricordo sono intravisti oggi come dei fantasmi nella memoria del protagonista, ora adulto (“I giorni dell’Eden”). Qualcosa di simile succede in “Incontri velati”, perché l’incontro del protagonista con un amico dopo anni di distacco è sconvolgente, in quanto l’amico forse un desaparecido riappare come un Dorian Gray, uguale fisicamente a com’era anni addietro. Questo «spettro conservato nel ricordo», porta il protagonista a visitare una casa di strane dimensioni e forme, dove le stanze sono occupate da una variegata e surreale umanità.
Ne “I giorni dell’Eden” e “Incontri velati” la storia argentina preme dietro la narrazione: il peronismo nel primo racconto, la dittatura del ’76 nel secondo. Il passato, che sfuma nei ricordi di quello che era successo nell’albergo Eden, si introduce come un lampo nella mente del protagonista del secondo racconto, e allora tutto sembra un’altra cosa e la stessa: l’amico di oggi è come l’amico del passato, le facce di altri amici che lui gli presenta sono equivocamente come le facce di amici suoi che pure non ricorda più bene, le donne di una stanza sembrano prostitute anche se si dice siano attrici che stanno facendo le prove, e così via. Se il tempo degli avvenimenti fantastici, surreali o meravigliosi sembra sfumare nell’incertezza e nello sconfinamento, lo spazio dei due racconti è invece molto dettagliato e particolarmente referenziale: mentre la categoria di tempo diventa sempre più sfumata, quella dello spazio si concretizza sempre di più.
Come dicevo, il genere fantastico appare con una modalità diversa in “La piena”: un narratore omodiegetico riceve informazioni da diversi testimoni su un fatto soprannaturale e sui fenomeni a esso collegati, e la ricerca che ne consegue, a volte, mescola il fantastico con il poliziesco. La storia appare strutturata in un primo livello narrativo che si riferisce al momento nel quale si ricorda, e in questo ricordo si inseriscono diverse narrazioni secondarie, alcune in discorso diretto e altre in discorso indiretto, alcune che rispondono al principio di verosimiglianza interna e che si legano allo sviluppo “poliziesco” del racconto, e una che nel voler spiegare l’origine dell’evento fantastico diventa fabulazione esplicitamente finzionale, al punto che il narratore di essa, Aguilera, la definisce come “leggenda”. Risulta evidente che nella nouvelle, con la modalità caratterizzante i testi postmoderni, il fantastico si intreccia con altri generi (il poliziesco, il leggendario) citando esplicitamente il testo che ha fornito il motivo “straordinario”: Moby Dick.
Il fenomeno soprannaturale o strano non irrompe nella scrittura in maniera imprevista: lo scrittore lo inserisce molto gradualmente nella narrazione. Prima lo suggerisce in maniera indiretta, mostrando come il narratore si vedesse camminare nelle immagini televisive «lungo una superficie bianca e umida»; il lettore ancora non sa cosa sia quella superficie caratterizzata dal colore bianco e dall’umidità, ed è possibile che non presti attenzione a questo indizio, visto che il narratore sembra renderla analoga alla neve quando aggiunge che si vedeva «come un alpinista in cima a una montagna».
E dopo che l’eccezionale straordinarietà dell’evento va diluendo nella quotidiana organizzazione turistica l’aspetto sinistro che l’aveva connotata inizialmente, il narratore, attraverso una visione, sposta la perturbanza del fantastico alla risoluzione di un enigma poliziesco.
In Carlos Dámaso Martínez il genere fantastico si presenta modulando alcune varianti: se tutte le narrazioni, eccetto “Il resoconto impossibile”, si sviluppano dentro l’ambito familiare e conosciuto, ciò che è minaccioso e perturbante è come se in alcuni racconti si fermasse, proiettando soltanto un’ombra sulla soglia del paradigma del nostro mondo. Il genere fantastico implica il districare una matassa, dispiegare un groviglio la cui materia ha lasciato una serie di indizi perturbanti nella narrazione, sebbene questo dispiegamento porti non a una conoscenza, ma a un blocco conoscitivo. Tuttavia l’impulso narrativo che il fantastico ha dato allo sviluppo del racconto continua a funzionare, perché nella seconda parte del testo c’è uno spostamento dello sguardo del narratore verso un altro enigma, che inaugura un’indagine poliziesca
Attraverso questa maniera di portare avanti lo sviluppo narrativo di “La piena”, Carlos Dámaso Martínez mette in discussione le categorie tradizionali del fantastico, mentre con altri racconti (“Il resoconto impossibile”, “Incontri velati”) si sofferma su tematiche tradizionali del fantastico (come la vita nell’aldilà, il doppio e l’annullamento della temporalità), o piuttosto (ne “I giorni dell’Eden” e “Come una visione”) ravviva l’erotismo su cui si fondava un romanzo fantastico come Manoscritto trovato a Saragozza, lasciando il lettore su una soglia incerta tra il passato e il presente, la verità e la menzogna”.

martedì 20 dicembre 2011

Istantanee d’Inquietudine - anteprima

La strega


...Sazia dopo essersi mangiata Hansel e Gretel, abbandonò in tutta fretta la casetta di cioccolato per accorrere al palazzo di una bella principessa e consegnarle un fuso che la fece addormentare, da lì alla casa di una certa Cappuccetto dove la informarono che arrivava tardi e che al suo posto avevano messo un lupo, correndo raggiunse il bosco per trovarsi con Biancaneve e darle una mela avvelenata… A casa, si tolse le pesanti scarpe, e mentre riposava sulla sedia a dondolo pregò dio che arrivasse presto il realismo…

A volte le streghe si stancano del loro lavoro e a volte reale e fantastico s’intrecciano in nodi difficili da districare. A volte chi legge può perdersi in labirinti di luce e ombra e non saperne più uscire.  Spesso nei racconti di Norberto Luis Romero tutto questo può succedere.
Norberto Luis Romero, autore di questo microracconto, è nato a Córdoba, Argentina, nel 1951. Dal 1975 vive in Spagna. Scrive racconti e romanzi, oltre a essere regista. I suoi racconti sono pubblicati su prestigiose riviste e antologie in Spagna, Argentina, Messico, Cile, Perù, Canada, Stati Uniti, Italia, Francia e Germania. La sua opera ha ricevuto numerosi riconoscimenti sia per lo stile diretto e icastico, sia per la tematica audace e non convenzionale.
Un’antologia di suoi racconti intitolata Istantanee d’Inquietudine uscirà prossimamente nella collana Gli Eccentrici (primo volume della collana "La piena" di Carlos Damaso Martinez) della Edizioni Arcoiris.


Dajana Morelli

lunedì 19 dicembre 2011

Consigli per i regali di Natale II: Una fenomenologia dell'assenza

Tra Le città invisibili che Marco Polo descrive a Kublai Khan, ce n’è una che non tocca terra ma è sospesa tra le nubi per mezzo di altissimi trampoli, perciò “chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato” (Calvino, 2005). I cittadini, ritiratisi lassù con tutto l’occorrente per vivere, di rado si mostrano sulla terra. “Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza” (ibidem). Gli abitanti di Bauci sarebbero dediti insomma ad Una fenomenologia dell’assenza, per riprendere il titolo dello Studio su Borges con cui Livio Santoro inaugura la collana “La battaglia dei libri” delle Edizioni Arcoiris; continuando l’analogia, si potrebbe leggere anzi il lavoro di Santoro come un ideale invito agli abitanti di Bauci, perché ridiscendano sulla terra e pongano la contemplazione della propria assenza a fondamento d’una nuova città.
Come dichiarato dal titolo, si tratta d’una rilettura dell’opera di Jorge Luis Borges in chiave filosofica, legittimata peraltro dall’assunto dello scrittore secondo cui la metafisica, come la religione, costituisce un ramo della letteratura fantastica. Santoro rintraccia dunque nella narrativa borgesiana un pensiero coerente, alla cui origine individua il “commiato dall’ontologia” consumato dalle correnti filosofiche del Novecento, l’abbandono cioè “della questione dell’Essere […] per impraticabilità”; ne deriva un soggetto che ha perduto la tradizionale possibilità d’ancorarsi agli universali e si scopre perciò privo di fondamento ― similmente all’abitante di Bauci che, lasciata l’apparente solidità della terra, si ritrova sospeso per aria. Un borgesiano dalla lunga esperienza qual è Blas Matamoro, nell’introduzione che impreziosisce lo studio, riconosce tuttavia che “al centro di questo libro c’è un problema etico: può costituirsi eticamente un soggetto privo di fondamento? […] Di conseguenza – chi lo avrebbe mai detto – è una scommessa filosofica quella che Santoro trova in Borges”. La fenomenologia dell’assenza che l’autore applica e al tempo stesso rileva nell’opera dell’argentino, infatti, non si risolve affatto in un ricorso al pensiero debole o ad una postmoderna estetica dell’effimero, delineando al contrario la possibilità d’un soggetto che proprio sulla rinuncia dell’ontologia sia in grado di fondare un nuovo modello etico – detto altrimenti, d’un abitante di Bauci che sulla base dalla contemplazione della propria assenza sappia escogitare una diversa forma di presenza.
Lo studio, strutturato in dieci capitoli, ruota attorno al tema del rapporto tra soggetto tempo e spazio, incisivamente raffigurato come un elastico che lega tre pietre, le quali, “quanto più vengono scagliate lontano, con tanta più forza tornano indietro”. La questione è allora sciogliere il nodo ovvero ripensare il correlato ontologico che stringe le tre dimensioni, ciò che appunto, con alterni risultati, hanno tentato alcune correnti filosofiche del Novecento (per esempio la fenomenologia e l’esistenzialismo, che Santoro incrocia efficacemente con lo storicismo critico, trovando poi un punto di raccordo nel pensiero di Karl Jaspers). Un intento questo che sembrerebbe condiviso da Borges, nella cui narrativa emerge infatti un legame tra soggetto spazio e tempo del tutto peculiare.
Con un tocco d’enfasi, potremmo sostenere che il Borges di Santoro prende le mosse da un atto prometeico, rubando cioè l’idea dall’empireo platonico per affidarlo all’uomo, o più precisamente ad ogni singolo individuo: “È proprio nel misconoscimento dell’èidos nella sua versione di universale in favore di un suo riconoscimento in una versione soggettiva che è racchiuso […] uno dei progetti più sottili dell’opera borgesiana”. Ne risulta ciò che Friedrich Nietzsche, negata l’esistenza dei fatti in favore delle interpretazioni, definiva “prospettivismo”; il rischio d’un conseguente ritorno all’antropocentrismo o ad una nuova ontologia positiva, basata stavolta sul soggetto, viene scampato però per il tramite degli oggetti. La narrativa di Borges è in effetti ‘popolata’ di oggetti che veicolano visioni prospettiche della realtà, altrettanto legittime di quelle umane: basti pensare al solo caso dello specchio. In questo modo, Borges giunge a diffondere “il tramite autoriale della realtà, estendendolo al di là dell’uomo e considerandolo come un insieme di elementi eterogenei […] concorrenti nella definizione di una serie indefinita di linee prospettiche”.
Simile è la soluzione prospettata al problema del tempo, la cui presunta universalità viene convogliata nelle versioni soggettive dei singoli individui. Al proposito, va segnalato come Santoro chiarisca la specificità con cui i personaggi borgesiani esperiscono il tempo grazie ad un accostamento inaspettato quanto funzionale, quello cioè con gli psicotici di Eugène Minkowski e Ludwig Binswanger. Come il malinconico binswangeriano risulta incapace di muoversi liberamente sull’asse temporale biografico restando invece vincolato ad un particolare momento, così per esempio Emma Zunz rimane imprigionata nel progetto di vendetta del padre. A differenza dell’esperienza dello psicotico, però, quella del personaggio borgesiano non è utile a mostrare per contrasto una temporalità ‘autentica’, e cioè universale e scomponibile in parti, quanto invece a denunciarne l’intima inadeguatezza.
Il personaggio borgesiano, insomma, non è chiuso in alcuna forma di solipsismo o di autismo ma, al contrario, diffonde la propria singolare prospettiva nel mondo circostante. Esattamente ciò che succede nel caso di Tlön, che Santoro richiama a dimostrazione di come una creazione immaginaria non solo influisca sulla realtà, ma possa giungere addirittura a scalzarla. Il tramite attraverso cui le prospettive dei singoli si fanno intersoggettive e al tempo stesso vengono convalidate è la lingua, convenzionale, arbitraria e situata per Borges, eppure “foriera di una sorta di legittimazione ontologica (dunque […] di un compromesso ontologico)”. Il risultato è allora l’assunzione “sullo stesso piano di legittimità delle diverse interpretazioni del reale”, il superamento cioè della “mutua esclusività delle possibilità, ovvero […] uno dei punti più caratterizzanti della scienza positiva”. In una parola, l’Aleph, così definito da Santoro: “l’immagine eidetica che racchiude in sé una regolazione non gerarchica degli enti e, prima ancora, delle rispettive immagini eidetiche di questi ultimi”.
Giungiamo così all’ultima pietra da sciogliere, ossia allo spazio, che Borges sembrerebbe interpretare in maniera opposta al pensiero novecentesco ma conseguente rispetto alla propria concezione del tempo. Non è infatti quest’ultimo a costituire un’ulteriore dimensione dello spazio, ma, a quanto dimostra il ricorrente tema del labirinto, è lo spazio ad essere ‘temporalizzato’: “Borges […] trasferisce la costituzione frammentaria del labirinto anche sulla piattaforma della temporalità, dispiegando così il concetto […] dell’interminabile ed eterno della ricerca, che è tale in quanto oltrepassa […] il tema del tempo e dello spazio”. La ricerca, “archetipo degli archetipi”, sussume dunque le tre dimensioni di soggetto spazio e tempo – una conclusione ancor più condivisibile da un punto di vista letterario, solo a considerare l’universalità del tema cavalleresco della quête. Finalmente disciolte, anziché disperdersi in direzioni diverse, si direbbe dunque che le tre pietre si riuniscano per fondersi l’una nell’altra.
È in ogni caso la ricerca a costituire il punto d’arrivo della lettura borgesiana di Santoro, che nelle ultime ed illuminanti pagine ricapitola il senso del percorso aprendo ad ulteriori possibilità di riflessione. A guadagnare risalto nell’opera di Borges non è tanto un raffinato scetticismo, quanto invece, inaspettatamente, la sua parodia: l’argentino giungerebbe in altre parole a “rivoltare lo scetticismo contro se stesso, al punto di infantilizzarlo e parodiarlo […]. In tal modo, non è mai assunta una sola delle versioni della realtà o dell’Essere […] di per se stessa, ma sono assunte tutte nella loro costitutiva infondatezza, nella loro assenza ontologica […], nella loro impossibilità di ridursi ad una pianta regolare”. Una diffusione di legittimità che si estende – ed è ciò che più conta – all’ambito della morale, dato che “alla ridefinizione della questione ontologica deve accompagnarsi giocoforza una ridefinizione generale della questione etica”. L’assenza di fondamenti, cui Borges fa seguire la validità delle prospettive dei singoli, anche in questo caso, infatti, chiama in causa l’individuo, o meglio la sua ricerca: “L’impalcatura teorica dell’opera di Borges sembra assumere i tratti di un tenace quanto virtuoso prospettivismo, in cui le versioni soggettive dei caratteri […] operano attraverso quello che con Foucault si potrebbe definire un determinato stile etico: questo stile, per lo stesso Borges, e per i suoi personaggi, è la ricerca”.
Tocchiamo qui uno dei maggiori pregi dello studio, e cioè l’inedito punto d’incontro tra Borges e Michel Foucault, grazie al quale Santoro mette in risalto l’uno alla luce dell’altro. Non che sia nuovo l’accostamento del filosofo al narratore, essendo stato incoraggiato per primo dallo stesso Foucault, né si tratta di autori che abbiano bisogno d’una rivalutazione, citati come sono a torto e a traverso. Il Foucault che Santoro ha come riferimento, però, non è affatto quello più frequentato o quello che, in una lettura di Borges, salta per primo alla mente. Non si tratta infatti del filosofo del discorso, dello storico del disciplinamento o dell’analista della biopolitica, quanto invece dell’ultimo e forse più trascurato Foucault, del teorico della “cura del sé” (Foucault, 2011). Dopo aver indagato l’evoluzione e il funzionamento delle tecniche di potere, Foucault si volge infatti allo studio dei modelli di soggettivizzazione, non certo per opporre semplicisticamente al potere l’individuo, che anzi ne è penetrato e di cui è partecipe, quanto piuttosto alla ricerca di vie attraverso cui possa tentare di liberarsi. Di qui l’attenzione alla cura del sé, ovvero alla cultura presocratica dell’estetica dell’esistenza, cui va riportato lo “stile etico” del Borges di Santoro. Tenendo ben presente però che il termine “estetica” non ha nulla a che fare con un qualche dandismo, riferendosi invece all’arte nel significato antico, più vicino all’artigianato che non all’accezione moderna; così come nello “stile” non andrà letta una ricerca del bello quanto l’espressione delle peculiarità d’un individuo. Secondo l’estetica dell’esistenza, infatti, era il singolo a dover dare forma alla propria vita, imprimendovi un ordine immanente e non imposto dall’esterno, e che si tenesse solo in virtù della sua coerenza interna; ne sarebbe risultata una morale indirizzata unicamente dal criterio personale, un’etica intesa appunto come stile.
Il Borges etico che risulta dall’incontro con il Foucault della “cura del sé” ha dunque un aspetto assai diverso da quello cui siamo abituati. Come ricorda lo stesso Santoro, infatti, “una delle interpretazioni più comuni dell’opera di Borges” si risolve nel delinearne la “natura assurda, congetturale, ma allo stesso tempo dichiarata”. Il che sarebbe condivisibile, a patto però che, come succede in questo studio, si faccia un indispensabile passo in avanti. Fermarsi al Borges onirico o cerebrale significa infatti relegarlo ad una raffinata letteratura d’evasione, o, peggio ancora, come Juan Rodolfo Wilcock in un articolo de L’Europeo del 1970, a doversi chiedere: Borges è reazionario? Mettere invece a confronto l’opera di Borges con il pensiero filosofico, interrogarsi in altre parole sull’origine e soprattutto sugli esiti della sconfessione borgesiana di qualunque solidità o fondamento ontologico, permette al contrario d’individuare una “sostanza affermativa della negazione”. Non diversamente, si direbbe, da quanto è possibile fare col pensiero di Nietzsche, qualora ci si rivolga a ciò che nel suo pensiero segue la pars destruens. Non è un caso allora che Santoro riconosca tanto nel pensiero di Borges quanto in quello di Foucault l’eredità del prospettivismo nietzschiano. Il Nietzsche sostenitore delle interpretazioni e il Foucault dello stile etico avrebbero infatti condiviso la soluzione che Borges, significativamente, suggerisce nei termini d’una riscrittura evangelica: “nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma noi dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra”. In un celebre intervento pubblicato sul Menabò del 1962, ragionando sulla diffusione d’una “letteratura del labirinto gnoseologico-culturale”, Italo Calvino vi distingueva due opposte possibilità: “Da una parte c’è l’attitudine […] necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo” (Calvino, 2011a). Da quest’ultima e più ricorrente interpretazione Santoro contribuisce dunque a liberare l’opera di Borges, attribuendole invece il primo intento, riportandola cioè “dalla letteratura della resa al labirinto” alla “letteratura della sfida al labirinto” (ibidem). Si tratta d’una distinzione assai sottile, in quanto il modello del labirinto “può funzionare come sfida a comprendere il mondo o come dissuasione dal comprenderlo; la letteratura può lavorare tanto nel senso critico quanto nella conferma delle cose come stanno e come si sanno” (Calvino, 2011b). Tanto più complesso è decidere d’un “labirinto delle immagini culturali di una cosmogonia più labirintica ancora”, come Calvino definisce l’opera di Borges: al di là degli auspici qua e là emersi nella critica, c’era bisogno infatti di chiarire la posizione filosofica dell’autore prima di tentare di stabilirne la prospettiva morale. Colmata questa lacuna attraverso Una fenomenologia dell’assenza, la parola va restituita al lettore, perché “è l’atteggiamento della lettura che diventa decisivo; è al lettore che spetta di far sì che la letteratura esplichi la sua forza critica, e ciò può avvenire indipendentemente dalla intenzione dell’autore” (ibidem) – coerentemente però a quella di Borges, secondo cui “leggere […] è un’attività successiva a quella di scrivere: […] più civile, più intellettuale” (Borges, 2001).

Giovanni de Leva

giovedì 15 dicembre 2011

Il labirinto dell'identità ne El cantor de tango di Tomás Eloy Martínez

Nelle prossime settimane arricchiremo il nostro catalogo con un libro scritto da Andrea Masotti e che sarà il secondo volume della collana La battaglia dei libri (primo volume della collana è "Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges" di Livio Santoro).

Andrea Masotti (Verona, 1982), dottorando in Letterature Straniere e Scienze della Letteratura presso l'Università degli Studi di Verona. Si occupa di letteratura ispanoamericana, in particolare la sua attività di ricerca è rivolta all'opera di Roberto Bolaño e alla letteratura argentina del Novecento.

"Esistono svariate maniere di perdersi, di smarrire la strada, e ne El cantor de tango di Tomás Eloy Martínez queste maniere vengono passate tutte in rassegna, sulla pelle del povero protagonista e dei vari personaggi, una a una. La presente analisi tenta di scandagliare le dinamiche che questi smarrimenti attivano nella complessa trama del romanzo, e i meccanismi letterari in gioco dietro di esse, tra le righe della narrazione.
Tutta la storia si sviluppa sul sottile e sempre critico confine che divide il mondo reale dal mondo finzionale, secondo una manipolazione consapevole e ricercata, da parte dell'autore, degli elementi che fanno parte dell'uno e dell'altro: lungo questa linea si dipanano le vicende in analisi, la lunga ricerca di Bruno Cadogan, accademico nordamericano, destinata a concludersi in un totale fallimento.
In questo si rileva il primo grande paradosso del libro di Eloy Martínez, che si struttura come il resoconto di una ricerca, di una quête iniziatica al contempo interiore ed esteriore, ma che si rivela essere il suo esatto contrario: un itinerario verso la progressiva e inesorabile perdita di tutto, della strada, di una solida identità, degli stessi obiettivi per i quali la ricerca aveva avuto inizio.
Quello del protagonista è un inseguimento duplice, il cui primo oggetto è il cantor de tango che dà il titolo al romanzo, un cantante al contempo leggendario e misconosciuto, le cui imprevedibili e itineranti esibizioni costituiscono un enigma che riguarda l'intera città (Buenos Aires) e il suo passato. La seconda meta, come il cantor sempre solo sfiorata, quasi intravista, e mai raggiunta, è l'aleph, il fantastico prodotto della fantasia letteraria di Borges.
Nel tentare di ricostruire i non facili passaggi che scandiscono questo percorso di dissoluzione, questo processo che in qualche modo distorce e ribalta il tradizionale iter dell'eroe alla scoperta di sé (delineando così una sorta di romanzo di de-formazione), la presente analisi si appoggia soprattutto a due autori: oltre al già citato Jorge Luis Borges, il secondo polo ˗ richiamato fin dall'epigrafe iniziale dal libro stesso ˗ è Walter Benjamin.
Sulla scorta dei due scrittori ˗ dei due pensatori ˗ si intuisce poco a poco ciò che sta dietro le due infruttuose ricerche di Cadogan, ovvero la terza ricerca che le include e le supera: lungo tutto il romanzo viene sviluppata un'implicita riflessione sull'identità, in particolare quella del narratore-protagonista, sfaccettata, sfuggente e inafferrabile come lo sono l'aleph e il cantor, e come loro fondamentalmente divisa tra la realtà e la finzione.
Esaminando e ricostruendo gli ingranaggi che muovono tali complicati incastri, questo saggio descrive in ultima analisi la forma del romanzo stesso, riassumibile soprattutto, come suggerisce il titolo, nella figura del labirinto. È un labirinto Buenos Aires (nello spazio, ma anche nel tempo), è un labirinto - dentro Buenos Aires - il percorso che disegnano il cantor e il suo inseguitore, è un labirinto il gioco di poroso intercambio tra la dimensione reale e quella finzionale. Ma oltre il labirinto, a complicarlo e a perfezionarlo interviene un'altra forma, che implica un altro movimento dei fatti, e della lettura e della scrittura stesse.
Per arrivare a capire di quale configurazione si tratti, l'analisi parte da quella che fin dall'inizio è forse la struttura più evidente: il libro pare in qualche modo diviso in due, sorretto da un andamento binario, secondo il quale due diverse dimensioni sono in continuo dialogo e tutto il resto - gli eventi, il protagonista, noi stessi lettori - rimane in mezzo, sul confine. Da una parte vi è sempre la realtà, ossia ciò che si suppone e si ammette essere la realtà nel contesto finzionale del romanzo (un romanzo, utile ricordarlo, che a tutta prima pare rispondere ai crismi del realismo, senza ambiguità di sorta, ambientato in una città vera durante fatti storici autenticamente avvenuti). Dall'altra parte, di volta in volta, si confrontano con la realtà e a essa si oppongono tutte le varie declinazioni dell'“irrealtà”: la dimensione letteraria, la dimensione cinematografica, la dimensione artistica in generale. Ma anche, in misura minore, l'allucinazione, lo stordimento dei sensi, quella zona incerta e anodina che corrisponde allo smarrimento.
È nel corso di questo esame che la prospettiva si sposta all'impostazione “meta-riferita” del romanzo, quale luogo di per sé preposto ad accogliere e proporre la finzione: tutta l'implicita riflessione su questo intercambio realtà/letteratura prende forma per forza di cose dall'altra parte del confine, nella dimensione letteraria, e l'oscillazione che l'intera narrazione continua a subire - senza risolversi a terminare, ad assestarsi dall'una o dall'altra parte - conosce il suo punto topico (la piega definitiva) nella parte finale, quando il protagonista si rivela essere anche il materiale scrittore dell'intera vicenda, del libro stesso.
Un'altra angolatura proposta nel saggio, dalla quale è altrettanto possibile individuare un'impalcatura duplice, un dialogo bidimensionale, è quella che riguarda il tempo del romanzo: la città esiste anche in questo caso su due livelli, paralleli e tangenti, ovvero il tempo presente e il tempo passato.
Interviene in questo caso il significativo sguardo dell'autore del romanzo sul vivo e ambiguo rapporto tra storia e storiografia, quest'ultima particolarmente permeabile alle intromissioni del fantastico, del letterario, del finzionale: Eloy Martínez si era già occupato di questo in testi saggistici e in più di un romanzo, su tutti va senz'altro menzionata la sua opera di maggior successo, Santa Evita.
Il labirinto costituisce quindi il nodo principale del saggio, e a esso è dedicata la sua parte centrale: qui si sviluppa il parallelo, nel romanzo tanto fondamentale quanto sommerso, tra le vicende narrate e il grande archetipo cretese. Lettura che si applica a tutti i personaggi, secondo la quale Bruno Cadogan percorre la traccia delle sue peripezie con il passo –contemporaneamente - di un mitologico Teseo e di un flâneur benjaminiano.
L'ultimo aspetto esaminato è quello linguistico: affrontando più direttamente la questione delle modalità compositive del romanzo, si propone un'analisi della lingua di ogni personaggio. Esiste nel libro una polifonia che, lungi dall'essere un mero artifizio formale, rivela un preciso valore anche per gli equilibri stessi della storia. La maniera di esprimersi del mai uguale io narrante, le lingue particolari che nei diversi contesti affiorano (la più significativa è la lingua dei tanghi antichi usata dal cantor), la stessa nominazione di tutti gli elementi del romanzo (onomastica, odonomastica), tutto riconduce all'ultimo grande labirinto, all'impalcatura stessa de El cantor de tango: la scrittura, creazione e distruzione, catarsi e prigionia a un tempo, filo di Arianna e inganno di Dedalo".

Andrea Masotti

lunedì 5 dicembre 2011

Consigli per i regali di Natale I - Napoli barrio latino

Esistono saggi sull’immigrazione in Italia, con cifre alla mano, statistiche e grado di incidenza della comunità esterna sulle popolazioni autoctone. Esistono poi le storie di immigrazione, che rivelano viaggi massacranti, siano essi in mare o in aereo (perché di un viaggio è massacrante anche ciò che lo precede e lo segue), integrazioni difficili, vite familiari e sociali con tante difficoltà, passaggi burocratici e molto altro. Napoli Barrio Latino – Migrazioni latinoamericane a Napoli di Maria Rossi (Edizioni Arcoiris - € 12,00) è entrambe le cose, anche se nello scenario più ristretto ma non meno vario e complesso dell’emigrazione/immigrazione dall’America Centrale e Meridionale. In più questo libro, che intervalla dati a racconti ed opinioni delle persone intervistate è anche uno dei pochi volumi sull’immigrazione con un occhio femminile. Sono moltissime, infatti, le donne a raccontare le loro esperienze di migranti, le difficoltà di ricongiungimento con i loro cari o i tentativi di costruirsi una nuova vita con nuove persone, cercando caparbiamente di sfatare il duplice tabù di donna latinoamericana come “servizievole” o “caliente”. Se dunque la prima parte del libro parla di un fenomeno in continua espansione in un paese che continua sotterraneamente a rifiutarlo o considerarlo un effetto collaterale di rivoluzioni e crisi mondiali a fronte di un immigrazione latinoamericana ancora giovane ma sempre più forte, soprattutto fra le popolazioni andine, la seconda parte è uno spaccato della vita di tutti i giorni, senza buonismi sull’accoglienza, l’integrazione e la commistione di culture, ma anche senza l’esasperazione della polemica sul razzismo, le difficoltà economiche ed occupazionali. Capiterà spesso di trovare frasi di nostalgia e di disagio verso la gente e le situazioni di tutti i giorni ma è questo che da ancora più dignità ad una comunità di persone che cerca situazioni stabili ed occupa a volte professionalità decisive negli ospedali, nei ristoranti e perfino negli uffici (e perfino i dati sull’imprenditoria sono sorprendenti). Tutto questo, nello scenario di Napoli, città che accoglie ma che nella sua continua instabilità sottopone l’immigrato ad una avventura giornaliera, punto di ritrovo, ma anche approdo provvisorio. “Napoli l’ho fatto mio. Lo rispetto e sono molto dispiaciuta adesso per come sta diventando…Per le nuove generazioni io sono ottimista“, dice una donna peruviana ed è l’emblema di un libro che parte dalle cose semplici ed attraverso queste, quasi come in un collage di piccole storie ci offre su un piatto la realtà, nel modo più duro, ma anche più sincero, dimostrandoci tutti i difetti ed i pregi della latinità (la nostra e la loro), le differenze fra culture, generazioni, modi di vivere ed il nostro essere, tutto sommato, tanti paesi in un solo grande paese.

L’inchiostro sangue del Rio della Plata traccia derive esistenziali e sociali

Se avete una “straordinaria passione per i paradossi dall’equilibrio instabile, come piramidi poggiate sulla punta”, la lettura che fa per voi, in amaca e in ogni luogo, è Inchiostro sangue, antologia di racconti del Rio de la Plata corredata da saggi, a cura di Loris Tassi e Antonella De Laurentiis. Il libro è un assaggio, uno ‘sfizio’ croccante e sapido; piacevole scoperta per chi si apre al mondo della letteratura catalogata come poliziesca, ma abbiamo ragione di credere anche per i lettori di consumata competenza. Il poliziesco: genere ‘ferroviario’, secondo qualcuno, o balneare secondo un’altra variante consolidata; gioco fantastico in forma di crimine rompicapo da Borges in poi. Poliziesco è generico: i critici,  scrive Loris Tassi (docente di lingue e letterature ispanoamericane presso l’Orientale di Napoli) nel suo saggio narrativo in appendice, “sono d’accordo nel ritenere che le correnti principali del poliziesco siano tre: il romanzo enigma, il romanzo di suspense e il romanzo noir”. Abbiamo tante di quelle categorie in testa da far spavento: un’antologia simile è un buon pretesto per fare ordine in zona ‘giallo’ e capire che “anche se viviamo ‘sotto l’influenza calmante della letteratura standardizzata’, anche se i romanzi polizieschi confezionati con lo stampino si sprecano, molti scrittori latinoamericani dimostrano che è possibile riattivare il genere con infinite e sempre più complesse versioni e perversioni”, secondo l’avvertenza ancora di Tassi. Non c’è solo il Dupin di Edgard Allan Poe, il grande iniziatore, il creatore del genere secondo Borges ma anche del suo lettore specifico, sospettoso, guardingo, critico; non c’è solo il più noto ai cultori, il detective Marlowe di Raymond Chandler, o il filone anglo centrico classico, l’Holmes di Conan Doyle, l’Hercule Poirot o la Miss Marple di Agatha Christie (per restare ai più famosi).
L’Argentina è terra feconda che ha prodotto e produce una originale e efficace produzione poliziesca, prima di Borges e dopo. L’antologia sta a testimoniarlo e si scopre curiosamente leggendo i racconti e inoltrandosi poi nei saggi integrativi, che ci sono stati scrittori di polizieschi d’attitudine e costruzione borgesiane prima di Borges; scrittori che hanno usato un genere considerato marginale o minore come un pretesto o ‘salvacondotto’ per incanalare di volta in volta un gioco intellettuale, un’arte sublime e fantastica (come poi Borges lo intese) , la fotografia della realtà, la denuncia sociale per sfuggire alla censura, dittatoriale e non; la voglia di trasgredire a logiche date e scovare la libertà d’espressione attraverso lo scarto dalla norma.  Apre l’antologia il racconto L’indagine (primo racconto poliziesco pubblicato in lingua spagnola nel 1897,  segnala nel suo saggio Andrea Pezzè) di Paul Groussac, scrittore franco argentino. Questo racconto mostra che il poliziesco è un ottimo modo di fare meta letteratura e realizzare avventure mentali. La trama è raccontata nel corso di una gita in barca da un ex commissario di polizia a Buenos Aires che ha la “straordinaria passione per i paradossi dall’equilibrio instabile”.  Il racconto riferito dal narratore consiste nel fatto che la protagonista è costretta a inventare lei stessa una trama fasulla e non perché colpevole. Non copre infatti il delitto della madre adottiva, ma copre la sua vita, o onorabilità. Caso vuole che quando la madre adottiva viene uccisa nella casa in cui convivono, ha ricevuto clandestinamente il suo amante. Siamo in costruzioni meta letterarie dove il delitto e la risoluzione dell’enigma sono elementi non prevalenti quasi: valgono come congegni per interessare il lettore e poi trasportarlo altrove, tra i fili che manovrano l’invenzione stessa, in sala macchine. Così è il racconto Il triplice furto di Bellamore dell’uruguaiano Horacio Quiroga, pubblicato nel 1903. Questo tal Bellamore è accusato da un antagonista che non ha niente di meglio da fare, tale Zaninsky, di aver compiuto tre furti in tre banche. Il narratore confuta le accuse e lo scagiona, senza indicare il vero colpevole. Allora in che consiste la trama e il punto di svolta? In realtà è un curioso racconto, “uno dei primi polizieschi sul poliziesco, un’opera che è la poetica di una narrazione”, chiarisce lo studioso Andrea Pezzè.
Scantona e trasgredisce regole proprie del genere La pazza e il racconto del crimine di Ricardo Piglia, racconto scritto nel 1975 (guarda caso quando l’Argentina sta sprofondando nella dittatura) incentrato non tanto sul crimine, ma sul fatto che si può dire la verità su un crimine solo attraverso la finzione, la scrittura. Un linguista prestato al giornalismo risolve un caso di omicidio decifrando le frasi sconnesse di una pazza che svelano l’identità dell’assassino. Il direttore del giornale rifiuta di pubblicare lo scoop per evitare problemi con la polizia: la verità non può essere messa al servizio della giustizia. L’unico sistema di svelarla è trasformarla in letteratura, ovvero ricorrere alla finzione di un racconto poliziesco. Il tipo dell’argentino Mempo Giardinelli, è un uomo che sa di stare per essere freddato da un killer e non fa niente per sottrarsi alla fine, anzi fa il resoconto mentale a freddo dell’avvenimento mentre è seguito nel tragitto verso casa perché “la morte è un fatto quotidiano”. Finché a casa, compie i soliti gesti,  l’unico cruccio è accorgersi che lo slip ha l’elastico rotto,  sente i passi sulle scale, apre una birra e anche la porta. La prima cosa che vede è la pisola col silenziatore. Ed è anche l’ultima. Non conta tanto chi uccide e perché, quanto il mandante; vale la suspense e la minaccia incombente, la condizione di precarietà e pericolo in una società corrotta dove non c’è salvezza. O ci si salva perdendo la vita nei modi più bizzarri: in Inchiostro sangue di Juan Sasturain si scrive col proprio sangue la canzone di dedica all’amata per riconquistarla, ma il gioco eccede la misura e si muore. Se è così che vanno le cose, allora, caso argentino a parte, se il poliziesco declinato in vari modi contiene il mondo e la sua complessità, si spiega allora anche l’inflazione del genere (fino alla pattuglia di scandinavi la cui la sovrabbondanza produttiva di noir ha esternato la corrente pulsionale di distruzione e morte, oltre la facciata di società civile e ‘criteriata’ purtroppo confermata dalla cronaca dei giorni scorsi). Profeta o premonitore, Jean Patrick Manchette (fautore del noir francese contemporaneo, morto troppo presto, citato da Loris Tassi), l’ha annunciato all’alba del duemila: “il giallo è la grande letteratura morale della nostra epoca ed è la letteratura della crisi”.



lunedì 31 ottobre 2011

Scrittura e morte

Inchiostro sangue: si chiama così l'antologia di racconti e saggi sul genere poliziesco nel Río de la Plata curata da Loris Tassi e Antonella De Laurentiis per Arcoiris. Inchiostro sangue perchè nei racconti selezionati emerge un drammatico legame tra scrittura e morte: i protagonisti, infatti, sono in gran parte scrittori e giornalisti alle prese, come in ogni poliziesco che si rispetti, con le logiche dell'investigazione e con quelle, meno evidenti, di delittuosi enigmi. Il lettore è così condotto in strade e locali malfamati di periferia, invogliato ad interrogarsi e a formulare congetture fin dal primo racconto che, nel lontano 1884, segnò la nascita del poliziesco argentino: "L'indagine" di Paul Groussac. Un percorso, quello di "Inchiostro sangue", che si snoda dal classico e "pacato" poliziesco d'enigma al più duro e inquietante hard boiled che emerge in tutta la sua crudezza dalle righe de "La pazza e il racconto del crimine" di Ricardo Piglia dove il diritto di espressione di un giovane giornalista esperto di linguistica si scontra irrimediabilmente con la logica castrante della censura. E la libertà di stampa è anche il tema di fondo, bruciante, de "Il tipo" di Mempo Giardinelli, abile costruzione letteraria che mette il lettore nella medesima condizione di dubbio, ansia e rassegnazione miste a paura del protagonista, ancora una volta un articolista.
A meglio esplicitare il legame a doppio filo tra scrittura e morte è però proprio "Inchiostro di sangue" di Juan Sasturain, racconto labirintico che mostra la somiglianza e interscambiabilità dei due fluidi. Non mancano poi le parodie, come nel caso dei racconti di Quiroga e Levrero, e il riferimento a fatti reali come in "Quelli che hanno visto passare il re" di Carlos Gamerro, ispirato ad un caso di cronaca nera avvenuto a Buenos Aires negli anni '90. Il piacere della lettura non diminuisce con il passaggio dai racconti ai saggi, che contengono riflessioni sul genere poliziesco di Piglia e Saer, nonchè dei docenti di letteratura ispanoamericana Loris Tassi e Andrea Pezzè. Un'antologia accattivante che offre al lettore italiano la possibilità di scoprire nuove ed inedite scene del delitto: uno stimolante e misterioso viaggio verso la verità, sui binari del dubbio e dell'ipotesi.

Emanuela Guarnieri, Roma n°6, 7 gennaio 2011

venerdì 28 ottobre 2011

Presentazione libro "Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges"

Martedì 8 novembre alle 18:00, presso la Libreria Perditempo di Napoli, verrà presentato il libro "Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges" di Livio Santoro, Edizioni Arcoiris, 2011.
Ne parleranno con l'autore il prof. Giancarlo Alfano, docente di letteratura italiana presso la Facoltà di Filosofia della Seconda Università di Napoli, e il prof. Oreste Ventrone, docente presso il Dipartimento di Sociologia Gino Germani dell'Università degli Studi di Napoli Federico II.

 
Libreria Perditempo
Piazza Dante 44/45 - Napoli

martedì 25 ottobre 2011

Il sangue scorre sul fiume Massacro

Nella zona di frontiera tra Haiti e la Republica Dominicana esiste una città chiamata Dajabon, zona in cui due volte a settimana viene fatto un mercato (molto molto esteso)  sia dell'usato in cui viene venduto principalmente ciò che i ricchi fratelli statunitensi donano ai "meno fortunati" (ciò che a voi non serve a noi sarà di grande aiuto), sia la merce generica che viene scambiata fra haitiani e dominicani, tradizione che affonda le sue origini nell'epoca coloniale quando le popolazioni contabbandavano fra loro prodotti proibiti dagli spagnoli.
I cittadini haitiani che attraversano la frontiera per vendere la loro mercanzia, hanno un permesso limitato ad un lasso di tempo di alcune ore, dopodichè dietrofront e si ritorna in patria. Neanche a dirlo, la frontiera è fortemente militarizzata, presidiata costantemente da militari dominicani armati, ma non per questo limite invalicabile: ancora oggi Dajabon è il principale punto di accesso alla Repubblica Dominicana per i clandestini haitiani che vogliono fuggire dal proprio paese.
Ciò che delimita il punto di separazione fra i due paesi che formano l'isola di Hispaniola è un fiume il cui nome originario era Dahabon e che oggi si conosce con il nome di Rio Masacre (fiume Massacro), nome che rimanda al massacro di haitiani compiuto nel 1937 per ordine del presidente/dittatore dominicano Trujillo. Uomo dai modi decisamente poco urbani, ordinò una pulizia etnica che ebbe la durata di 11 giorni ed alla fine della quale il numero di haitiani sterminati ammontava a 15 mila uomini.
Tutti coloro che non riuscivano a pronunciare la parola spagnola perejil (prezzemolo) venivano giustiziati.
Si racconta che nel corso del suddetto massacro, il sangue grondante dai corpi degli haitiani trucidati che cadevano nel fiume, rese il fiume completamente rosso, da lì il nome di Rio Masacre.

Le Ande di casa nostra

"Oltre a nordafricani, asiatici o europei dell’est e dei Balcani, in Italia ogni anno giungono migranti anche da un altro sud del mondo, l’America Latina. Eppure dei latinoamericani nel nostro paese, ci si occupa quasi esclusivamente a proposito delle gang giovanili che turbano la quiete delle periferie di Genova, Torino o Milano. Ancora poco si sa della distribuzione insediativa e lavorativa, della nazionalità di provenienza, della composizione sociale. Del resto, che siano dominicani o peruviani, ecuadoriani o boliviani, poco importa. Sono tutti indistintamente latinoamericani, e, ragionando per stereotipi, ballerini o, in ogni caso, “portatori sani” della tradizione artistico-musicale del subcontinente. A fare chiarezza e a spiegare perché i paesi latinoamericani siano diventati di recente “espulsori” di emigranti e perché questi ultimi abbiano scelto proprio l’Italia (e l’Europa), provvede la ricerca di Maria Rossi Napoli barrio latino (Salerno, Arcoiris, 2011, pp. 255, € 12,00).
Da storica meta di immigrazione, l’America Latina si è trasformata negli ultimi decenni in area di emigrazione dapprima di tipo fronterizo (cioè tra paesi latinoamericani confinanti) ma, soprattutto, verso gli Stati Uniti e, poi, verso l’Europa “che da nuova frontiera della migrazione latinoamericana negli anni Novanta ne è diventata meta prediletta”. Se negli anni Settanta, infatti, l’emigrazione latinoamericana verso il vecchio continente fu in special modo di tipo politico (esiliati e rifugiati in fuga dalle dittature militari), “nel decennio successivo […] la presenza latinoamericana in Europa si è diversificata, innanzitutto aumentando in numero, […] ma soprattutto grazie al moltiplicarsi dell’immigrazione economica di cui si rendono protagonisti i rappresentanti della classe media in fase di impoverimento. Saranno proprio questi immigrati economici […] a dare vita alle prime esperienze di reti migranti, favorendo lo sviluppo di flussi che, negli anni Novanta e fino ai giorni nostri, diventeranno massivi”.
Sul piano dei fattori che motivano questa inversione di tendenza e l’accelerazione dei flussi la Rossi individua gli storici legami euro-latinoamericani, un patrimonio culturale e linguistico comune, l’irrigidimento in materia di immigrazione degli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e “la necessità [dell’Europa] di manodopera specializzata per alcuni settori dell’economia”, a cui si aggiunge l’azione sempre più capillare delle reti. L’emigrazione latinoamericana è imponente: il numero dei migranti nella regione è passato da 20 milioni nel 2000 a oltre 26 milioni cinque anni dopo (cioè il 13% della popolazione migrante mondiale). Di questi, all’incirca un paio di milioni si sono diretti verso l’Europa. Spagna e Italia sono in prima fila come mete migratorie europee.
Nel caso dell’Italia, secondo i dati Istat del 2008, i residenti latinoamericani sono circa 300.000 (cioè il 7,7% della popolazione immigrata). Per quanto concerne la loro struttura, l’autrice sottolinea che, nella fase attuale, “i principali paesi d’origine non sono più solo quelli della grande emigrazione italiana […] ma quelli dell’area andina i cui migranti partono soprattutto per ragioni economiche; la distribuzione per sesso vede il netto predominio femminile; sono aumentate le regioni interessate dalla loro presenza; e si sono moltiplicate le attività sociali delle singole comunità, segno di mobilità sociale ed accesso di visibilità. Da parte sua, la società italiana sembra aver riservato un’accoglienza privilegiata ai latinoamericani. L’atteggiamento che gli italiani hanno nei loro confronti è genericamente accogliente, benevolo e, chissà, anche partenalistico”.
La seconda parte del libro è dedicata alle migrazioni latinoamericane a Napoli e in Campania. Qui l’analisi dell’autrice si fa minuziosa e si avvale di numerose testimonianze orali. In questo quadro, viene anche individuato una sorta di case-study relativo al gruppo più numeroso, quello dei peruviani, di cui si descrivono tra l’altro, l’organizzazione associativa e le pratiche religiose. Emerge un affresco di grande vivacità, di accoglienza, di integrazione, di ibridazione culturale, (sebbene non manchino momenti di tensione) che, per certi versi, sembra stridere con il clima di intolleranza che attraversa l’Italia, contribuendo a fare di Napoli, almeno nel caso della comunità latinoamericana, un laboratorio di convivenza."
Raffaele Nocera, Le Monde Diplomatique n.7, anno XVIII, luglio 2011, p.22

venerdì 14 ottobre 2011

"L'altra America" visto da Limes


(…) Ma andiamo al libro, il cui titolo si avvicina in qualche modo a quello della presente rubrica: L’altra America Tra Messico e Venezuela, storie dell’estremo Occidente (Edizioni Arcoiris, pp.280, euro 12). “Estremo Occidente”, prima di diventare l’insegna del blog di Federico Rampini, era stato d’altronde il titolo del libro che all’America latina aveva dedicato Alain Rouquié, mentre Marcello Carmagnani ha parlato di “Altro Occidente” e Ludovico Incisa di Camerana di “Terzo Occidente”. Insomma, si gira attorno a un concetto che ormai sta diventando familiare un po’ a tutti coloro che si occupano della regione. Piero Armenti, classe 1979, uno dei due autori, è un giornalista, che ha lavorato per cinque anni a Caracas con La Voce d’Italia, giornale della comunità italiana in Venezuela.

Inoltre ha collaborato con Corriere del Ticino, Panorama e Il fatto, ma nel contempo sta anche frequentando un dottorato presso l’Orientale di Napoli. Antonio Pagliula, classe 1982, l’altro autore, è invece un laureato in Managment Internazionale, che è stato in Messico per studio e lavoro dal 2007 al 2009. L’uno pone come sua principale sfera d’interesse la rivoluzione bolivariana in Venezuela; l’altro l’economia e i mercati emergenti latinoamericani. Tutti e due hanno però approfittato della loro esperienza all’estero per raccontarla in un blog: www.notiziedacaracas.it quello di Armenti; www.verosudamerica.com quello di Pagliula. Se vogliamo entrambi titoli un po’ fuorvianti. Le notizie di Armenti non arrivavano infatti solo da Caracas, ma da tutto il Venezuela, e a volte anche da altre località latino-americane. Quanto al “vero sudamerica”, è vero che il blog si occupava massicciamente un po’ di tutta l’area. Tecnicamente però il Messico è nordamerica dal punto di vista geografico; centroamerica da quello culturale. Sudamerica, evidentemente, qui è solo quel sinonimo un po’ impreciso con cui nel corrente parlare italiano ci si riferisce spesso all’intera America latina.

Attenti, però! Per un blogger l’usare un linguaggio il più vicino possibile a quello parlato, magari con le sue imprecisioni, non è necessariamente un difetto. Armenti nell’introduzione ammette con brio che “la storia di due nanetti” contenuta in questo libro, “alcuni post rivisti di Notizierdacaracas, (altri), sempre rivisti di Verosudamerica (e) poi infine un saggio inedito sul Venezuela”, alla fine potrà pure sembrare “un po’ caotico”. Ma se è così “brinderemo con spumante italiano. È così l’America latina, è così Caracas. È così la Boglosfera, è così la traiettoria degli italiani in pellegrinaggio (laico) per il mondo”. Per la verità, la lettura delle due parti tutta d’un fiato, cosa che il sottoscritto ha fatto, potrebbe suggerire anche un’altra immagine: quella del “visto da destra visto da sinistra” già cara a Giovannino Guareschi. “Visto da destra” la parte di Armenti, e non solo per il modo in cui il modello chavista ne viene demolito senza pietà.

C’è anche un certo tipo di allegre notazioni antropologiche, che ricordano una certa verve di alcuni grandi inviati italiani del passato, da Montanelli a Pizzinelli, che alla destra si collocavano: sia pure una destra liberale. Impagabili, ad esempio, i consigli agli europei su come adeguarsi alle condizioni igienico-sanitarie locali, che d’altronde è a doppio taglio: gli europei non si capacitano dell’apparente scarsa cura dei popoli tropicali per la confezione delle vivande; ma d’altra parte per i venezuelani è dogma che gli europei puzzino, per scarsa familiarità con acqua e sapone. Il che poi interferisce anche con i consigli al maschio latino: “perché l’uomo italiano non seduce la venezuelana”. “Il fatto che il corpo della bella donna venezuelana sia formoso, fino all’oscenità, non implica che quello stesso corpo abbia voglia di tutti, e soprattutto di voi. Sedurre è un’altra cosa. In realtà pensare che il vostro sex-appeal sia un riflesso del Pil italiano, è una presunzione fuori luogo”. Insomma, non è dappertutto come a Cuba, con la sua prostituzione di massa da penuria.

Pagliula, invece, fa un po’ il “visto da sinistra”. Durissima la critica ai governi “fallimentari” del centro-destra del partito di azione nazionale messicano. Sarcastico il tono verso le “novità made in Usa” dei “muri di frontiera e torture legali”. Evidente l’attrazione per le novità dei governi di sinistra che stanno dilagando nel resto della regione. E continua anche la battaglia contro gli abusi delle multinazionali che, ricorda Armenti nell’introduzione, è valsa a verosudamerica lunghe lettere delle stesse multinazionali. Contenuti a parte, anche se Pagliula ammette di non essere un vero giornalista come l’amico Armenti, è pure nella miglior tradizione dei reporter di sinistra la cifra dell’indignazione. “Oaxaca ha paura, la si può leggere negli occhi di chiunque, dalla vecchietta del negozio all’angolo al proprietario del ristorante, passando per i commercianti degli innumerevoli mercanti che popolano la città”, annota ad esempio il 15 novembre del 2007. “Paura. Frustrazione, paralisi si percepiscono al passeggiare tra le vie della città. Molta gente sembra intimidita al parlare dei fatti degli ultimi tempi, si sente quasi impotente. Non per questo però c’è rassegnazione, anzi”.

Sono però proprio sguardo da destra e sguardo da sinistra che si fondono assieme per dare una visione d’insieme migliore, il segreto di quella visione stereoscopica che ha dato all’uomo e ai primati un vantaggio evolutivo decisivo. D’altra parte, la storia del Messico gigante petrolifero che nel 2000 manda al governo con Vicente Fox la prima alternativa neo-liberale al modello populista al potere dai tempi della rivoluzione messicana è quasi esattamente speculare a quella del Venezuela gigante petrolifero che nel 1999 manda al governo con Hugo Chávez la prima alternativa populista al modello neo-liberale che si è andato imponendo in gran parte della regione nel decennio precedente. E anche i due autori, che si proclamano appunto amici e hanno fatto questo libro assieme, finiscono in fondo per convergere. Armenti non può consentire con l’evoluzione autoritaria di Chávez e neanche con il suo disastroso dilettantismo economico, ma registra con attenzione il vuoto di programma dell’opposizione, le speranze che la politica redistribuzionista del regime ha suscitato, i movimenti sociali che hanno intravisto una storica occasione di riscatto. Punto centrale del suo saggio finale è la storia del leader comunitario Juan Contreras e della sua radio. Visto con evidente simpatia, anche se poi fa sua l’analisi dell’esperto di comunicazioni Antonio Pasquali: “Il governo di Chávez si è appropriato di quest’idea democratica, l’ha convertita in caricatura ideologica: consegna le stazioni chiavi in mano (comperate ai cubani) ai fedelissimi del quartiere. La loro definizione ufficiale è mezzi autogestiti con risorse dello Stato. Una tomba della vera libertà di espressione”.

Pagliula è col cuore dalla parte dei risentimenti latino-americani contro i prepotenti gringos, ma quando vede i governi di sinistra della regione rallegrarsi per la crisi dei mercati finanziari, “come se questo significasse la caduta del sistema capitalista e di conseguenza dell’Impero Usa”, gli cascano le braccia. “In realtà se fossi un presidente latinoamericano mi preoccuperei seriamente”, annota il 23 settembre 2008. “Gli Stati Uniti in recessione economica significa crollo dei prezzi delle materie prime (petrolio per Venezuela, gas per Bolivia, soia per Argentina per esempio) ed una diminuzione della domanda manifatturiera. Sarà più difficile per i Paesi latinoamericani accedere a prestiti, visto che gli investitori sposteranno le loro preferenze verso mercati più sicuri. Diminuiranno le rimesse degli Stati Uniti verso il centroamerica, su cui si sostiene l’economia familiare di molti Paesi”. La manciata di notizie venezuelane da cui siamo partiti dimostra quanto questa analisi fosse corretta!



25/02/2010
Maurizio Stefanini

mercoledì 12 ottobre 2011

"L'arte è pagata o troppo o troppo poco"

"L'arte è pagata o troppo o troppo poco", Opinioni di un clown,  Heinrich Böll

La scorsa notte ho ricevuto la mail di uno dei prossimi autori che pubblicherà la Arcoiris, uno dei più grandi autori viventi dell'America Latina. Ha dedicato metà della sua vita alla letteratura, allo scrivere ad altissimi livelli, non è più un ragazzino e nonostante ciò deve lavorare duramente per pagare l'affitto di casa e mangiare, a volte non riesce neanche a far fronte a queste spese e quindi quelli che si definiscono suoi discepoli intervengono economicamente e lo aiutano.
In molti penseranno che lui non è l'unico ad avere difficoltà e che almeno può contare sull'aiuto di chi si fa carico delle sue spese.
Giustissimo!
Il punto è che nel suo caso, e da rabbia e rammarico, l'arte non lo ha ripagato.
Non ci sono molte alternative, o si è venerati e strapagati, o si resta al di fuori di certi meccanismi commerciali e quindi si arriva al punto di vivere di stenti perchè la cultura non paga.
Va da sè che il tema è estremamente complesso e non può essere esaurito qui in poche righe.
Mi limitavo a constatare che la cultura rende liberi, ma a volte rende anche poveri.

mercoledì 28 settembre 2011

Cinema e letteratura

Cinema e letteratura in ambito Iberico e Iberoamericano si presenta con una forte connotazione diacronica e diatopica, dovuta sostanzialmente al fatto che gli studiosi provengono da ambiti disciplinari molto differenti. Pertanto, gli interventi contenuti spaziano dalla Spagna barocca a quella contemporanea con le sue problematiche in tema di immigrazione e marginalità urbana; dal Messico popolato dai fantasmi di Pedro Páramo al Brasile magico di Guimarães Rosa; dalle cronache di conquiste fallimentari – leggi Álvar Núñez Cabeza de Vaca o Lope de Aguirre – alle vertiginose costruzioni narrative di Julio Cortázar; dalla Colombia di Andrés Caicedo, completamente estranea al Realismo Mágico imperante negli anni ‘60, al grottesco venezuelano di José Rafael Pocaterra. Quasi tutti gli interventi hanno preso in esame il problema e le strategie dell’adattamento cinematografico di un testo, non sempre letterario. A esempio, l’intervento su Werner Herzog si riallaccia alla tradizione di storie sorte dalle testimonianze sulla terribile spedizione lungo il fiume Marañón, mentre altre relazioni hanno preso in analisi film nati dalla letteratura sociologica o dalle inchieste giornalistiche che esplorano il disagio della società contemporanea (in città molto diverse e lontane come Buenos Aires, Madrid).
                                                                                Andrea Pezzè

lunedì 26 settembre 2011

Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges

Dal prologo di Blas Matamoro:

"[...] è una scommessa filosofica quella che Santoro trova in Borges, una riflessione esistenziale tipica del Ventesimo secolo. L'etica come ricerca e la ricerca come bene morale. Può giungere a noi da luoghi inattesi. Un cuchillero che ne sfida un altro crede nell'ordalia della morte; Emma Zunz confida nella legittimità della sua vendetta; i gauchos taciturni, che formano parte del passato epico degli argentini, giocano il proprio destino a carte, a una payada ingegnosa o a un tragico duello con i coltelli. E non aggiungo nulla su Giuda Iscariota, sui monaci penitenti, sui flagellanti a cui fanno riferimento tante scene borgesiane. [...] Santoro ha esplorato l'opera di uno scrittore del Ventesimo secolo chiamato Jorge Luis Borges. Lo ha fatto partendo dall'assenza del soggetto classico - il Soggetto Trascendentale - e dimostrando che, da un punto di vista esistenziale, a partire da questa assenza uno scrittore può costruire la propria soggettività. Un collega di Borges, John Le Carré, che difficilmente avremmo accostato allo scrittore argentino, dichiarò una volta in un'intervista (El País, Madrid, 27/11/2010): «Non vorrei sembrare presuntuoso ma uno scrittore possiede un solo enigma: la propria vita». Borges avrebbe potuto sottoscriverlo? Credo che Santoro risponderebbe di sì."

"Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges" verrà presentato il giorno 8 novembre alle 18 presso la libreria Perditempo a Napoli.

mercoledì 21 settembre 2011

Inchiostro sangue... quante trame ha un racconto poliziesco

Quella che segue è una bellissima recensione scritta da Livio Santoro e pubblicata su quadernidaltritempi. Livio si è da poco unito alla Arcoiris ed infatti è recentissima la pubblicazione del suo "Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges", libro che presenterò nel mio prossimo post e che può vantarsi di avere il prologo scritto da Blas Matamoro.

©quadernidaltritempi.eu n. 26 - 1010

Se è vero che tutta la letteratura russa è fuoriuscita dal cappotto di Nikolaj Gogol’, forse si può dire, senza rischiare di esagerare, che tutta la letteratura argentina (e gran parte di quella latinoamericana) è fuoriuscita dalla biblioteca di Jorge Luis Borges. E per rilanciare sul parallelismo, e aggiungere un altro pizzico di fascino, si potrebbe affermare che quanto si è detto è valido non solo per chi è vissuto dopo Borges, ma anche per chi è vissuto prima. E questo, ovviamente, è un gioco a cui molti dei personaggi dello stesso Borges, come per esempio quel famoso Menard che ha scritto il Chisciotte (Borges, 1956, pp. 36-47), hanno giocato. Si prenda il caso di Paul Groussac, che alcuni decenni prima di Borges fu direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, che alcuni decenni prima di Borges fece ricorso a Arthur Schopenhauer per raccontare una delle sue storie, che alcuni decenni prima di Borges propose variazioni sul tema del giallo, che alcuni decenni prima di Borges morì cieco… ma che da Borges, evidentemente, assunse il tratto del racconto. In un recente volume pubblicato per l’editore Arcoiris, dal titolo Inchiostro Sangue. Antologia di racconti e saggi del Rio de la Plata, è proprio un racconto di Groussac, datato 1897 ad aprire le danze.
Questo racconto, nemmeno troppo contorto negli incroci della storia, ha una peculiarità di particolare interesse: la protagonista, ovvero colei che si trova a dover inventare una trama fasulla per coprire le vere dinamiche di un delitto, non è nel delitto in sé che ha interesse, non è nell’utile che si potrebbe trarre da un assassinio che poggia la sua attenzione. Per lei, per Elena, la verità è un’altra: la necessità di dover costruire una trama (che a sua volta sta per l’autore all’interno della trama del racconto) non per il delitto in sé, ma per la sua stessa vita, per la sua propria biografia, per qualcosa che con il delitto non ha nulla a che fare.
Elena è un’orfana, la madre adottiva conserva un tesoro di quattrocentomila pesos. La ragazza, invece, conserva un amore furtivo, vicino dall’esser rivelato. Cipriano, l’amante invisibile, raggiunge la giovane Elena dalla finestra della sua stanza, nascondendosi agli sguardi della madre adottiva della ragazza. Durante una serata di amore rubato, i due amanti sentono delle urla provenire dalla stanza dell’anziana madre di Elena: un uomo ha tagliato la gola della donna e sta tentando di trafugare quanto può. Cipriano, lanciandosi contro il ladro riesce a ferirlo mortalmente, ma egli stesso viene trafitto ad una spalla da una coltellata. Fuggito all’esterno, il ragazzo non farà più ritorno nella casa, ché con la sua presenza non potrebbe che mettere in grossa difficoltà la sua amante sfortunata. La versione raccontata da Elena alla polizia è differente dai fatti: non ha visto nulla, ha solo sentito grida atroci, uno sparo e rumori di una colluttazione, con lei non c’era nessuno. Le investigazioni portano a decidere che due ladri, una volta entrati in casa della madre d’Elena, e dopo aver ucciso quest’ultima, abbiano interrotto la loro complicità per combattersi avidamente l’un l’altro. Il pudore e l’accento di Elena convincono chi l’ha interrogata della giustezza della sua versione. Le altre vicende del racconto, che pur succedono, e che parlano della chiave per accedere alla ricca eredità lasciata dalla donna morta, sono tuttavia marginali, non hanno nulla a che vedere con l’ossatura principale del racconto.
Da chi ha tratto ispirazione Elena?
Anche se apparentemente quanto si sta per sostenere potrebbe sembrare irragionevole, tra gli innumerevoli personaggi di Borges ce n’è uno che, più degli altri, si muove sugli stessi binari dell’Elena di Groussac. Paradossalmente (o forse proprio per questo) quello di cui si parla è un personaggio che abita uno dei racconti dalle note meno fantastiche e meno oniriche della produzione borgesiana: pronunciamo il nome di Emma Zunz (Borges, 1952, pp. 57-64).
La storia di Emma Zunz è grossomodo questa: una giovane donna lavora in una fabbrica in cui si minacciano scioperi e interruzioni di servizio, l’uomo a capo della fabbrica, Loewenthal, è anche un vecchio socio del padre di Emma: proprio per delle sue impunite manovre losche, il padre di Emma pagò l’onta del carcere. Emma, una volta morto suo padre, decide di uccidere Loewenthal per una legittima vendetta. La mattina prima dell’assassinio Emma si finge prostituta, giace con un marinaio senza utilizzare precauzioni, e si reca in fabbrica ripetendo nel pensiero il copione di quello che sarebbe successo dopo. In fabbrica, chiesta udienza a Loewenthal con la scusa di rivelare i nomi di chi fomenta in fabbrica le voci di sciopero, Emma l’uccide con una pistola che già sapeva essere nascosta nell’ufficio. La deposizione davanti al giudice vede Emma denunciare uno stupro da parte del padrone ed una sua strenua difesa con un’arma che tutti sapevano essere custodita nell’ufficio di Loewenthal.
Ecco, Emma ha costruito la sua trama, l’ha resa naturale, incontestabile. Borges, nella frase di chiusura di questo racconto, concentra il precipitato di tutto quello che è stato e che sarà (o al limite che dovrebbe essere) nella letteratura gialla e poliziesca: “La storia era incredibile, effettivamente, ma s’impose a tutti, perché sostanzialmente era vera. Vero era l’accento di Emma Zunz, vero il pudore, vero l’odio. Vero anche l’oltraggio che aveva sofferto; erano false solo le circostanze, l’ora e uno o due nomi propri” (ibidem, p. 64).
In storie come quella di Emma e come quella di Elena, la verità è un fatto soggettivo, e proprio qui sta l’incontro delle due protagoniste dei due racconti. L’artificio narrativo che sta alla base di questa concessione di verità alla storia di Emma ed a quella di Elena (entrambi gli autori giustificano e rivendicano la legittimità delle storie inventate dalle protagoniste dei due racconti) è l’identificazione del colpevole con la vittima. Il volto delle protagoniste ha, in entrambi i casi, due profili: chi inventa la storia per nascondere un necessario delitto, e chi è legittimato a farlo perché, in fin dei conti, buono.
In questo modo procedono le due storie, proponendo una sottile (in senso fisico) continuità. Questa continuità, che lega gli stessi autori dei racconti, rende Borges ed Elena, Groussac ed Emma personaggi di un’altra storia, una storia che il poliziesco è perfettamente in grado di raccontare.
Tra gli inviti che il poliziesco (ed il fantastico) propone ai propri lettori c’è quello di provare a tracciare delle linee inseguendo puntini, come nei giochi di enigmistica, per scovare quale disegno si cela lì dietro. Ed il lettore incantato, quello ammirato dalle volute della trama gialla, contraccambia questo invito e sa che i puntini non hanno numeri da seguire in sequenza, e che quindi devono essere uniti secondo un’altra logica: quella della trama, appunto. E così è il lettore stesso a diventare un don Isidro Parodi (Borges e Bioy Casares, 1942). Ma dire questo non è aggiungere nulla di nuovo.
Tuttavia capita, talvolta, che la trama stessa continui al di fuori degli angusti limiti che imprigionano i puntini, al di fuori della cornice, e che magari il discorso della narrazione rilanci su un’altra trama, su un gioco a puntate per rimanere in un lessico enigmistico. Quello che succede con Borges e Groussac, per esempio, è proprio questo: una storia che si è scritta da sola, che ha cercato gli stessi accenti nel tempo, a decenni di distanza, e che ha avuto la bizzarria di scegliersi lo stesso scenario, lo stesso palcoscenico, o almeno degli stessi pezzi in parte della scenografia. In questo modo gli stessi scrittori sono personaggi di un’altra trama, più ampia e nebulosa, che può abbracciare indistintamente un genere letterario, una nazione, oppure a livello micro un semplice, piccolo oggetto. Borges, lo sappiamo bene, ha avuto questo proposito in maniera costante in tutta la sua produzione, arrivando a proporsi come personaggio – o come diversi personaggi (Borges, 1975, pp. 11-19; 1960, pp. 92-95) – all’interno delle sue stesse storie. Proprio per questo egli ha anticipato Groussac, nonostante il tempo che evidentemente suggerirebbe di pensare il contrario. Borges ha anticipato Groussac perché ha intuito che la trama di ogni racconto, ma anche quella di ogni poesia o romanzo, appartiene ad una trama più ampia, che sta sopra tutte le altre, che sta sopra gli orizzonti parziali di una storia. Lì, in quella trama sovrastante, il tempo è una cosa che può anche non essere letta come facciamo noi altri: per utilizzare la figura più famosa ed allo stesso tempo più efficace di Borges, questa trama di cui si parla è come un Aleph (1952, pp. 150-170), in cui la contemporaneità (e con essa il passato ed il futuro) non è che un accidente che ha da dire solo allo sguardo dell’uomo. E l’uomo, l’abbiamo già detto, di questa trama non è che un personaggio.